Pandemia

Tenere le distanze? Ma la pelle ha fame di pelle

In che modo questa misura di contenimento trasformerà la nostra vita pubblica e privata?
Secondo Jean-Luc Nancy «noi ci tocchiamo in quanto esistiamo. Il nostro toccare è ciò che ci rende noi». © Pexels/Cottonbro
Francesca Rigotti
Francesca Rigotti
09.01.2021 06:00

Lo schermo del computer rende praticabili attività proibite dalle misure di confinamento. Lavoro, scuola, università, ma anche rapporti umani e relazioni sociali, intrattenimento, musica. Purché i partecipanti non vengano in contatto diretto, purché non si tocchino, purché ci si tenga a distanza.

L’uso delle tecnologie digitali che finora erano entrate in un mix più o meno spontaneo di azione in presenza e di azione a distanza, dettato dalla possibilità, dalla disponibilità, dal desiderio di risparmiare i costi per spostamenti e permanenze ma anche dalla voglia e dal piacere del momento, è diventato un obbligo. Che come ogni obbligo sopprime volontà e libertà e lega (dal latino obbligare, legare verso, costringere) e limita.

Entusiasmi e timori

Tale soluzione che appariva di emergenza sembra destinata a diventare la norma e a trasformare la vita pubblica e privata. Alcuni, i tecnofili accaniti, sono deliziati e entusiasti nel vedere come l’industria digitale e il suo contorno si siano rapidissimamente affermati. Altri un po’ meno, soprattutto perché temono le ripercussioni dell’informatizzazione sistematica su vari aspetti della vita sociale e privata e i costi altissimi che ne vengono da pagare; temono, tra l’altro, il controllo di dispositivi «intelligenti» che si intrufolano nei nostri spazi spiando il consumo che facciamo di acqua calda e molto altro; altri, in ambito didattico, paventano la registrazione delle lezioni, della voce, del volto e delle parole del docente universitario, la cui espressione dovrebbe essere massimamente libera. Molti temono le conseguenze della mancanza di contatto fisico e le sue incalcolabili ripercussioni sulla vita di ognuno di noi, e su queste ci soffermeremo ora. Mentre scrivo queste parole al computer, «ping!», «ping!» si accumulano nella posta elettronica gli inviti a conferenze e seminari, tutti rigorosamente online, webinar e podcast a manetta, cui non parteciperò perché non se ne può più di star lì davanti a uno specchio di pixel a comunicare con persone che non vedrai mai, cui non darai la mano, con cui non berrai un caffè e non ti farai nemmeno quattro chiacchiere a cena. È vietato.

I luoghi dei divieti

È vietato stare vicini in un’aula, in una corte, in una sala riunioni a scambiarsi idee e conoscenze, è supervietato darsi la mano, una pacca sulla spalla, abbracciarsi, persino prendere il cappotto di un altro per appenderlo al guardaroba è vietato. Ma, ci chiediamo, è possibile scambiarsi idee e conoscenze senza vicinanza, la didattica a distanza è veramente una alternativa valida a quella in presenza, è una buona cosa l’e-learning, su cui si compiono infinite ricerche e progetti e esperimenti? Le competenze e le conoscenze apprese dallo schermo rimangono addosso alle persone? Si stabilisce tra docenti e studenti quella corrente reciproca, per la quale chi insegna a sua volta apprende e viceversa? Posso sentire la scossa elettrica della torpedine se a parlarmi è un avatar di pixel? Se il corpo non partecipa con tutti i sensi? Non a caso ho citato la torpedine, cui Platone paragonava Socrate, il maestro di tutti i filosofi. La torpedine fa intorpidire, seduce e rapisce chi le si avvicina e la tocca, e Socrate di certo affascina, incanta, ammalia completamente chi viene in contatto con lui; in contatto reale, in prossimità fisica, come racconta un dialogo platonico forse spurio, il Teage. Lì il giovane allievo Aristide confessa al maestro Socrate che sente di progredire nella sapienza semplicemente standogli accanto, nella stessa stanza, ma soprattutto quando siede vicino a lui, standogli vicino e toccandolo [130d, e].

Toccarsi è oggi percepito come una minaccia. Eppure sappiamo benissimo che è un bisogno essenziale, a meno che non vogliamo far l’amore con le parole

«Ti dirò, Socrate – rispose –una cosa incredibile, per gli dei, ma vera! Io, infatti... progredivo quando ero insieme a te, anche se solo ero nella stessa casa, ma non nella stessa stanza; di più, però, quando ero nella stessa stanza, e molto di più, mi sembrava, quando, stando nella stessa stanza, guardavo verso di te mentre parlavi, più di quanto guardavo da un’altra parte; ma soprattutto e in sommo grado progredivo quando sedevo proprio vicino a te, standoti accanto e toccandoti» (kaì haptómenos).

Una minaccia?

Toccarsi è oggi percepito come una minaccia. Eppure sappiamo benissimo che è un bisogno essenziale, a meno che non vogliamo far l’amore con le parole, come suggeriscono alcuni santoni del nostro tempo. Gesto automatico o voluto, percezione aptica che fa da ponte tra noi e la realtà, il toccare è essenziale nel nostro abitare il mondo. Ed è essenziale anche riguardo alla conoscenza, perché è importante che le persone e le cose ci tocchino affinché possiamo e vogliamo conoscerle. Ci tocchino secondo alcuni aspetti della ricchissima polisemia del termine: perché ci coinvolgono (ci riguardano da vicino), perché ci interessano (ci colpiscono e ci affascinano) e perché coinvolgono (investono e sfiorano) i nostri sensi e la nostra mente.

Diciamo che il toccare è indispensabile all’esperienza e alla conoscenza e alla relazione affettiva, eppure ci rendiamo tutti conto anche senza essere degli specialisti che oggi tocchiamo sempre meno sia le cose sia le persone, e questo ben prima dell’arrivo di prescrizioni sanitarie. Che cosa può significare ciò?

Tasti e schermi

Di fatto, tasti e schermi sono le cose con le quali entriamo maggiormente in con-tatto, con la punta delle dita e con lo sguardo, e che sostituiscono oggetti artificiali e naturali, toccati a loro volta da macchinari, strumenti, attrezzi e apparati. Tocchiamo o sfioriamo sempre più tasti – e presto non toccheremo più nemmeno quelli - e sempre meno tocchiamo gli oggetti, e poco tocchiamo le persone, quasi per nulla le persone anziane, i vecchi, delegando questo gesto alle persone che se ne prendono cura a pagamento. Insomma, usiamo sempre meno le mani anche se attiviamo ogni momento le punte dei polpastrelli. Mettiamo dei media tra noi e le cose, le percepiamo a distanza e tramite intermediazione di schermi, come se toccare con mano la realtà fosse passato di moda, non più importante.

Sembriamo illuderci di credere che sfiorare le lucide superfici degli schermi di smartphone e tablet o essere accuditi da robot con un sistema di riscaldamento che intiepidisca le sue superfici sia sufficiente a sostituire il calore umano.

E invece, il contatto di pelle è importantissimo, e in ogni caso indispensabile per lo sviluppo dei bambini e per il benessere degli anziani, eppure sembriamo illuderci di credere che sfiorare le lucide superfici degli schermi di smartphone e tablet o essere accuditi da robot con un sistema di riscaldamento che intiepidisca le sue superfici sia sufficiente a sostituire il calore umano.

Mantenere le distanze

Allora, nel momento in cui ci viene prescritto di tenere le distanze come se fossimo camion in autostrada, oggi che non dobbiamo stringere la mano a nessuno ma salutarci volgarmente con un colpo di gomiti o di caviglie, che non possiamo scambiarci un abbraccio se non ipocritamente nei messaggi, oggi che non possiamo baciare né genitori né bambini, che ne è del gesto arcaico del toccare e del toccarsi, del gesto aptico protettivo o aggressivo, in ogni caso altamente comunicativo? Soltanto due anni fa, nel 2018, la giornalista culturale del prestigioso settimanale tedesco Die Zeit, Elisabeth von Thadden, ha pubblicato un saggio sul tatto, non tradotto in lingua italiana, che era già premonitore, quasi profetico: La società che non si tocca (Die berührungslose Gesellschaft, C.H. Beck, München 2018). Il libro mostra l’ambivalenza tra la promessa moderna dell’integrità fisica e la ricerca tardocapistalista del corpo perfetto. Nota che il fatto che ferite e contatti fisici indesiderati siano oggi sanzionati è una grossa conquista: dove però un tempo regnava la vicinanza forzata, ora nel mondo digitale una solitudine scelta minaccia di sostituire il contatto diretto.

È un dilemma acuto tra la perdita di contatto e di prossimità e la conquista di spazio. E che dire della stridente contraddizione tra la cura e la distanza, uno degli infiniti e trascurati effetti collaterali delle misure anti-epidemia? Dell’assistenza umana – uso umano nel senso di mite, equo, civile, generoso, anche affettuoso – che dovrebbe ricevere chi è debole perché malato, chi è fragile perché molto piccolo o molto anziano, e il quale, invece del calore del tocco umano si trova di fronte una barriera di plastica: guanti, tute, scafandri, maschere. Quando non anche a una barriera di paura, che tutta quella plastica non riesce a coprire.

Un bisogno assoluto

Eppure la pelle ha fame, di pelle ha fame – skin hunger, dice il termine tecnico – non di plastica. Non possiamo fiorire, né noi esseri umani né gli altri primati, senza contatto di pelle, senza essere toccata dagli altri. I bambini piccoli ne hanno un bisogno assoluto, altrimenti finiscono per morire, come nei tristi orfanotrofi rumeni dove i bambini ricevevano cibo e abiti, ma mai carezze. Il contatto fisico è indispensabile alla vita di tutti, allo sviluppo dei neonati, alla memoria dei malati di Alzheimer, al rafforzamento del sistema immunitario, alla guarigione, Il bisogno umano principale non è il sesso ma la vicinanza fisica, che dice che non si è soli, che si esiste. Un abbraccio vero tiene insieme, le persone e le cose. Bambini particolarmente inquieti si calmano se abbracciati, o rivestiti da tutine di sabbia, abiti imbottiti che avvolgono in un abbraccio duraturo, prezioso per i corpi dei bambini autistici dispersi nello spazio.

Il bisogno umano principale non è il sesso ma la vicinanza fisica, che dice che non si è soli, che si esiste. Un abbraccio vero tiene insieme, le persone e le cose.

Per non parlare del messaggio emanato dalla stretta di mano, una calda stretta fatta con tutta la superficie, dita e palmo, nelle nostre culture segnale di fiducia (apro la mano) e di controllo (la stringo con energia).

Come nel caso del digitale il destino del non toccare che oggi ci tocca era già intrinseco a modalità sviluppatesi nella prima modernità: il toccarsi vi era stato ridotto dall’ampliarsi delle dimensioni delle case, delle chiese, delle strade, dei mezzi di trasporto. Lo notava il grande sociologo Georg Simmel agli inizi del Novecento, affermando che l’aumento dello spazio intorno all’individuo, soprattutto nelle grandi città, corrisponde alla crescita della sua libertà, allo sviluppo della sua individualità personale e all’aumento delle sue capacità mentali (Le metropoli e la vita dello spirito, 1903).

Abbiamo dunque interpretato la distanza e il non toccarsi come una forma di libertà e adesso la distanza imposta ci si ritorce conto. Perché se non ci tocchiamo finiamo di esistere. Il nostro esistere è il toccare, ripete il filosofo del toccare, Jean-Luc Nancy in Essere singolare plurale (1996). «Noi ci tocchiamo in quanto esistiamo. Il nostro toccare è ciò che ci rende noi».