Il sestante

Tessuti da favola e «mani cotte»Quel filo di seta che unisce il Ticino a Como

La località di confine è andata molto vicina ad essere riconosciuta dall’UNESCO «città della seta» - Una storia che ci tocca molto da vicino
Luigi Rossi, una filanda, in «Il lago di Como» 1903-1904, supplemento a «Illustrazione italiana».
Carlo Silini
04.01.2020 06:00

C’è un filo molto sottile e luminoso che dall’Ottocento a metà del Novecento ha unito indissolubilmente il nostro Cantone a Como. Proprio per quel filo, c’è mancato poco che la località di confine venisse eletta città dell’UNESCO nelle scorse settimane. Come città della seta, s’intende. Una storia che ci tocca molto da vicino. (Leggi il commento: «La rivincita delle nipoti delle filandaie»)

Fino alla fine di ottobre ci hanno sperato, i lariani, di vedere riconosciuta la loro città fra quelle creative dell’UNESCO. Como (nella foto sopra) era tra le quattro finaliste italiane che si sono presentate a Parigi, ma è stata superata da Bergamo e da Biella premiate la prima per la tradizione artigiana e la seconda per la produzione casearia. Due riconoscimenti su 66 assegnati in tutto il mondo sono così stati attribuiti all’Italia.Il programma Città creative dell’UNESCO, detto per inciso, esiste dal 2004 e ha lo scopo di unire una rete di città che hanno fatto della creatività il motore dello sviluppo economico. Fino ad oggi non vi figurano località svizzere. Peccato, tra orologeria e cioccolata (per dire le prime due cose che ci vengono in mente), qualche carta da giocare l’avremmo. Ma torniamo a Como che, invece, ci è andata molto vicina.

«Non è un dramma»

«Non è un dramma», commenta Bruno Profazio, giornalista, già vicedirettore de La Provincia di Como, uno dei promotori della candidatura, «prima di tutto perché siamo contenti per Biella che vive un momento economico difficile. Bisogna sapere che la nostra città è stata valutata molto positivamente, ma ha pagato il limite posto nel bando UNESCO di designare solo due città per ogni Paese. Inoltre, c’era il vincolo di non poter attribuire il titolo a due città dello stesso Paese candidate nello stesso settore (Cluster). E Biella concorreva nello stesso settore. Infine, siamo stati incoraggiati a riprovarci già dall’anno prossimo».

Fin qui la stretta cronaca. Il resto è storia ed è storia anche di casa nostra. «A partire dal Settecento si può dire per un paio di secoli almeno, lo sviluppo della sericoltura fu il fatto più caratterizzante e incisivo dell’economia rurale di numerose contrade della zona subalpina» leggiamo in un vasto articolo di Bruno Caizzi su Scuola Ticinese (n. 102, dicembre 1982). Un testo nel quale si ricordano i bozzoli che già da allora «passavano il confine lombardo, attirati da filandieri più lesti nell’incetta: e anche di sete gregge prodotte in filandine del Sottoceneri che confluivano poi nel giro del commercio di Milano».

Verso Nord e verso Sud

Affari che andavano in due direzioni, a nord con i cantoni tessili della Svizzera tedesca e a sud con la Lombardia austriaca. «I contrabbandieri – annota Caizzi - facevano, su e giù, i loro viaggi, portavano da qua a là o viceversa, secondo l’opportunità del momento, sementi e bachi, sete gregge o panni; gli incettatori al servizio di mercanti maggiori correvano le campagne alla ricerca di bozzoli per le filande che, in un’ampia e popolosa striscia posta a cavallo del confine politico, si contendevano la materia prima, sempre insufficiente rispetto alla domanda del mercato e alla capacità di lavorazione degli impianti».

Nel Mendrisiotto, frotte di ragazze e bambine a partire dai sette anni lasciavano la scuola per impegnarsi nelle filande del Comasco e del Varesotto, o in quelle del cantone

Tutto inizia nel ‘500

«La nostra città», ci spiega il direttore del Museo della seta di Como Paolo Aquilini che incontriamo tra i tessuti e i macchinari dell’esposizione permanente, «ha introdotto la lavorazione della seta nel ‘500. Tra il XI e il XIII secolo, era specializzata nella produzione lanifera. La lavorazione della seta vien fatta risalire a un frate dell’ordine degli umiliati, tale Daniele, o dal bellanese Pietro Boldoni. Fatto sta che nel 1780 la produzione di bozzoli nel Comasco ammontava a 300 mila kg, pari a 22.500 kg di seta grezza, e nel 1779 a Como venivano rilevate 30 filande con 216 fornelli».

I passaggi di bozzoli dal Mendrisiotto al Comasco cominciano a quell’epoca. E quando l’industria serica si sviluppa, i travasi di lavoratrici del settore vanno avanti per quasi due secoli. «Nel Sottoceneri, e principalmente nel Mendrisiotto, frotte di ragazze e bambine a partire dai sette anni lasciavano la scuola per impegnarsi nelle filande del Comasco e del Varesotto, o in quelle del cantone, che, da sole, impiegavano almeno duemila operaie in gran parte d’età scolastica», scrive Raffaello Ceschi nel saggio Ottocento ticinese (Dadò, 1986).

Le strutture ticinesi

Quanto alla produzione ticinese, esplode da metà Ottocento. Già nel 1842 un’inchiesta federale registra 41 filande, distribuite in quattro distretti: Lugano 23, Mendrisio 15, Bellinzona 2, Locarno 1. Le più importanti, alcune delle quali hanno proseguito l’attività fino a metà Novecento, sono state la Bolzani-Torriani a Mendrisio (sopra, in una foto di qualche decennio fa), la Lucchini a Lugano, la Paganini e Molo a Bellinzona e le filande di Melano e di Capolago (Segoma). Due dei vecchi edifici sono stati riattati: quello di Mendrisio è diventato il centro culturale La Filanda e quello di Melano si è trasformato in palazzina di appartamenti. Due felici esempi di riconversione di edifici simbolo della nostra archeologia industriale.

Ma il lavoro per arrivare al prodotto finale iniziava molto prima dell’approdo in filanda, con la coltivazione privata a conduzione famigliare dei bachi da seta. Molti nuclei impiantavano la propria «bigatèra», allestendo in casa allevamenti improvvisati, addirittura nelle cucine e nelle camere da letto. Nel 1845, per esempio, molto prima di finire al museo del Ballenberg, nella masseria di Novazzano fu aggiunta una grande bigattiera per la bachicoltura.

Nel 1909 il distretto di Lugano contava ancora 1224 bachicultori, ma la loro produzione pro capite non raggiungeva in media i 25 chilogrammi di bozzoli freschi

Tra i seni delle donne

I bachi da seta erano sorvegliati giorno e notte quasi solo dalle donne, che poi consegnavano i bozzoli alle fabbriche ticinesi o a quelle di Como, trasportandoli in gerli. La Leventina fra 1841 e 1844 aveva piantato 8.700 gelsi e il medico condotto Angelo Pometta si augurava che la Valmaggia se ne desse almeno altrettanti, osserva Caizzi. «La bachicoltura era considerata attività perfettamente compatibile con gli impegni del campo o della stalla e poteva offrire un buon antidoto al flagello dell’emigrazione. (...) Nel ‘73 Ambrogio Bertoni allevava seme per bachi e lo vendeva; nell’81 l’albergatore Pasta sul Generoso ospitava cartoni di seme per l’ibernazione, come si legge, sempre in Gazzetta Ticinese. Nel 1909 il distretto di Lugano contava ancora 1224 bachicultori, ma la loro produzione pro capite non raggiungeva in media i 25 chilogrammi di bozzoli freschi». La bachicoltura è continuata a lungo in Ticino. Un documentario di Gianna Paltenghi e Gino Macconi - realizzato per il programma televisivo «Segni» e andato in onda l’8 settembre 1981- mostrava il lavoro di Pietro Quadranti, uno degli ultimi allevatori a Castel San Pietro. La semenza veniva tenuta in casa e fatta dischiudere dai contadini. «Si mettevano sotto il letto per tenerli al caldo, ma anche tra i seni delle donne», testimonia il Quadranti.

Un successo strabiliante

La produzione della seta, insomma, segna in tutte le sue fasi la storia sia del Ticino che del Comasco. Nel bene e nel male. Nel bene, perché rappresenta a lungo l’industria di punta delle due regioni confinanti, anche se ora è del tutto tramontata nel nostro catone, mentre a Como continua ad essere un settore d’eccellenza.

Il mondo serico, scrive Caizzi, «offrì opportunità nuove e mise in evidenza anche un gruppo di imprenditori più intraprendenti, quei proprietari fondiari che, legando ciclo agricolo e ciclo manifatturiero e mettendo insieme bozzoli propri e bozzoli d’altri, non disdegnarono di assumere la trattura e a volte anche la filatura, o torcitura, com’era detta. E fu a suo modo anche questo un sintomo di risveglio».

Dal Vaticano a Washington

Da noi non ne resta quasi traccia (sopra un quadro rappresenta la filanda di Bellinzona) ma oggi, nel Comasco, si continua a produrre il 90% dei tessuti di seta italiana e il 30% di quella mondiale, ci spiega la curatrice del Museo della seta Ester Geraci. «Abbandonata quasi del tutto la produzione destinata al consumo di massa, i prodotti serici sono ora rivolti ad una clientela d’élite e trovano la loro collocazione principale all’estero. Tra i maggiori acquirenti, per dire, c’è il Vaticano che apprezza uno dei trattamenti della seta più esclusivi di Como, l’effetto moiré, che crea sul tessuto venature tipo legno. Tra i nostri clienti c’è anche la Casa Bianca», aggiunge mostrandoci il tessuto sotto vetro che è stato comandato per il rivestimento delle sedie della residenza presidenziale americana, «e la regina d’Inghilterra, che ha la propria stilista per i modelli che indossa, ma vuole che i propri vestiti siano fatti con la seta di Como. Poi c’è l’alta moda (e fa il nome di alcuni marchi d’altissimo livello). Un po’ di crisi l’abbiamo patita qualche tempo fa quando alcuni tra i maggiori stilisti proponevano capi monocromatici, soprattutto in nero. Ma ora la tendenza si è rovesciata», conclude.

«I man cott»

Ma, pensando al passato, anche nel male. Ne accenna anche la Geraci (nel museo comasco nella foto sopra) davanti a una “barca di tintura” per la seta. «Qui i problemi di salute per le donne erano tanti, come i reumatismi e i tumori per le esalazioni di coloranti». Nei suoi scritti, il filosofo e politico bernese Karl Viktor Bonstetten (1745 1832) sosteneva che la salute delle donne ticinesi era cagionevole per via dei lavori pesanti e le definiva «le bestie da soma di questo Paese». Molte di loro sceglievano la vita in filanda anche a causa della massiccia emigrazione maschile. In un commovente documentario di Delta Geiler Caroli e Eva Herrmann Martin, andato in onda il 7 settembre 1989 nella trasmissione «Argomenti», Olga Ceppi, una delle ultime filandiere ticinesi, raccontava la propria storia di impiegata per 40 anni alla Segoma di Capolago, commentando: «Ul Signur m’ha dai la grazia da restà sana». Colpisce il suo ricordo, sempre e rigorosamente in dialetto, delle mani delle filandaie: «I man i eran cott, la mett da vidé un pulastro che ‘l cös un puu trop: i man i era inscì, perché buivan in da l’acqua 14 o 15 ur par fa che sa distacava un fil». Molte donne, infatti, lavoravano tutto il giorno con le mani immerse nell’acqua bollente. Soffrivano del cosiddetto «male delle bacinelle».

Bisogna immaginare queste povere filatrici sotto l’influsso di un calore tropicale, curvate per 14 ore sopra una caldaia in continua ebollizione

Un «profuso sudore»

Nel saggio Il mulino dei Galli (Tipografia Stucchi, Mendrisio, 2007), Ivan Camponovo cita le parole un medico che aveva fatto visita all’interno di questi stabilimenti alla fine dell’Ottocento: “Bisogna immaginare queste povere filatrici sotto l’influsso di un calore tropicale, curvate per 14 ore sopra una caldaia in continua ebollizione, costrette ad un incessante dimenare delle braccia e quindi immerse ognora in un profuso sudore”. Per quanto riguarda il lavoro nelle torciture, un altro medico osservava che le ragazze erano obbligate “a piegature del tronco molto incomode e a lungo protratte, ad inspirare un’aria poco ossigenata e impregnata fuori misura di pulviscoli serici, ed a vivere sempre d’un vitto asciutto e per se stesso malsano”». Diffusissima, inoltre, era la piaga del lavoro minorile. (Sotto: una bimba mostra i bachi da seta che si alimentano su una foglia)

Cimeli svizzeri

Pensiamo agli strabilianti successi e alle inenarrabili miserie di questo capitolo della nostra storia attraversando il museo di Como, un nitido percorso didattico tra le varie fasi della lavorazione della seta. Annotiamo mentalmente alcuni «cimeli» svizzeri. Ce li mostra Ester Geraci, non prima di osservare che nel ‘500 la seta a Como era stata importata da Zurigo. In una delle prime sale, ecco una filandina, cioè un apparecchio per la trattura della seta, strumento che serve a dipanare i bozzoli e avvolgere il filo in matasse. Viene da Hausen am Albis, nel canton Zurigo. E un orditorio del 1900 proveniente da San Gallo. Nella sala dedicata ai grandi tessitori del territorio – in linea di massima, esponenti della borghesia illuminata comasca, sorta per spinta massonica, e creatrice dei primi asili nido, dei movimenti cooperativi e delle associazioni di mutuo soccorso - ci sono anche un paio di nomi elvetici: Federico Zeuner e U. Walter.

Un tessuto unico

Dei tempi antichi del risveglio economico al prezzo del lavoro minorile in condizioni paurose conserviamo stupefatta e doverosa memoria. Di quelli nuovi ammiriamo la straordinaria ricchezza cromatica e la smagliate bellezza dei foulard, delle cravatte, delle camicie e dei vestiti ancora oggi prodotti per gli amanti del tessuto più nobile, duttile (fresco d’estate e caldo d’inverno) e luminoso che l’ingegno e la fatica dell’uomo abbia mai generato.