Alain de Raemy: «Non c'è peggior tradimento dei pastori che agiscono come lupi»
(Aggiornato alle 12.08) Sì, nel rapporto pubblicato dall'Università di Zurigo sugli abusi sessuali nel contesto della Chiesa viene citata anche la diocesi di Lugano. Il capitolo dedicato alla Chiesa luganese, nello specifico, formula ipotesi inquietanti e pone domande precise ai vertici della curia: gli attuali e i precedenti. Domande alle quali l’amministratore apostolico Alain de Raemy ha cercato di rispondere stamane, dopo un giorno di silenzio, nella conferenza stampa convocata alle 9.30. Un compito non facile, evidentemente. Perché le accuse delle due ricercatrici zurighesi sono molto esplicite: tra la metà e la fine degli anni Novanta, su indicazione probabilmente del vescovo Eugenio Corecco, in carica dal 5 giugno 1986 al 1. marzo 1995, fu decisa la «distruzione di documenti» la cui «entità non è ancora stata» del tutto chiarita.
Assieme all'amministratore apostolico de Raemy, nella sala riunioni della curia vescovile a Lugano, oggi erano presenti il delegato ad omnia dell'amministratore, Nicola Zanini, e la giudice Fabiola Gnesa, presidente della Commissione diocesana di esperti per la gestione di casi di abusi sessuali in ambito ecclesiale. Una ventina i giornalisti e gli operatori presenti.
Il portavoce Luca Montagner ha esordito spiegando che la curia ha avuto a disposizione il testo del rapporto ieri, come i media. Alain de Raemy, dal canto suo, ha ricordato il silenzio assordante delle vittime e affermato: «Questo documento ci spaventa, sconcerta e rattrista». Non solo, «non c’è peggior tradimento dei pastori che agiscono come lupi». E ancora: «Non bastano semplici scuse per fatti del genere, sui quali non si possono mettere pietre sopra. Non serve voltare pagina, ma aprire tutte le pagine. Non possiamo non riconoscere questa colpa, c'è un dovere di giustizia verso le vittime. Siamo davanti a un momento di verità e di conversione, la Chiesa svizzera garantisce piena collaborazione e farà di tutto per impedire, in futuro, ulteriori abusi sessuali. Riconosciamo la nostra responsabilità e ci vogliamo impegnare per un cambiamento definitivo e repentino». Sono poche le vittime che hanno potuto esprimersi, ha detto l'amministratore apostolico. «Dunque il silenzio che in Chiesa viene vissuto come un momento di contatto con il Signore è un silenzio assordante. È questo a colpirmi maggiormente». Di nuovo, «questo studio ci fa capire quanto soffrono le vittime, è inimmaginabile. Il lavoro dei ricercatori in questo primo anno ha permesso di confrontarci con documentati e ripetuti comportamenti illeciti verso i quali la gerarchia ecclesiastica deve rispondere. I 1.002 casi identificati, la punta dell’iceberg, testimoniano l’irresponsabilità di molti. La causa di immense sofferenze per le vittime di abusi a scapito degli autori di questi misfatti, che spesso sono riusciti a passarla liscia cercando di salvaguardare la buona reputazione della Chiesa ed evitando lo scandalo».
Gnesa, venendo a casi concreti, ha rivelato che dal 2019 sono giunti cinque casi all'attenzione della Commissione. In due casi è stata avviata una procedura di risarcimento. «Invito le vittime a farsi avanti» ha proseguito la giudice. Tornando ai casi trattati, «le vittime sono state ascoltate e accolte» ha ricordato Gnesa. «Tutte le persone coinvolte erano consapevoli che raccontare nuovamente l’abuso subito poteva portarle a rivivere questo dolore». Il fatto che in due casi la Commissione nazionale abbia riconosciuto un risarcimento alle vittime «non ha risolto le loro sofferenze, ma le ha aiutate». E gli altri tre casi, detto dei due arrivati al risarcimento? Uno si è risolto con una lettera di scusa da parte del vescovo, come richiesto dalla vittima; un altro con un incontro con il vescovo e una lettera di scuse da parte della Chiesa; un altro, legato a un parroco del Locarnese, trasmettendo l'incarto all'autorità penale civile.
Negli ultimi settant'anni, ha chiarito Gnesa, sono stati otto i presbiteri condannati dalla magistratura ordinaria.
Don Zanini, circa la distruzione di documenti che, secondo il rapporto, forse non permetterà di ricostruire in modo chiaro e attendibile i casi di abusi sessuali commessi, nel secolo scorso, da sacerdoti e religiosi nel territorio della diocesi della Svizzera italiana, ha definito «spinosa» la questione. All'epoca l'errore, spiega, «fu quello di distruggere senza lasciare una traccia. Riconosciamo, dalle lettere esposte nello studio, che dei documenti in passato sono stati distrutti». «Per noi – ha aggiunto – il riordino dell'archivio è stato lento e difficoltoso. In questi ultimi anni, con l'arrivo del nuovo archivista, il riordino è ulteriormente e considerevolmente aumentato».
Fronte archivio, Gnesa ha affermato: «Tengo a precisare che negli ultimi vent'anni nessun documento è mai stato distrutto, c'è stata una grande volontà di trasparenza. Ci rivolgiamo però alle vittime di abusi e esortiamo loro a farsi avanti. Il fatto che la gente non lo faccia, in Ticino, è probabilmente legato a una questione culturale».
Quanto al caso che riguarda direttamente Alain de Raemy, nell'ambito dell'indagine portata avanti dal vescovo di Coira sulle accuse mosse a diversi membri emeriti e in carica della Conferenza dei vescovi svizzeri e altri presbiteri, nello specifico sulla gestione di casi di abusi sessuali, il vescovo ha tagliato corto: «Mi bruciano le labbra, ma non posso parlare fino a quando l'indagine è in corso. La sua fine è prevista per fine anno». Sull'ipotesi di un eventuale passo indietro, invece, de Raemy ha chiosato: «Dipende dalle situazioni. Se si accerta la responsabilità e che c'era la possibilità di sapere è opportuno farlo».