Bulli già alla scuola dell’infanzia?

Noah si rifiuta di andare alla scuola dell’infanzia. Ha problemi con un suo compagno di sezione, uno piuttosto «agitato», che spesso lo provoca e talvolta lo picchia. Addirittura una volta gli si è avvicinato con un coltello in mano in sala da pranzo, spaventandolo a morte. Poi c’è Sofia, 4 anni, che è stata presa di mira da un gruppo di bimbi di un anno più grandi di lei. «Mi spingono e mi nascondono sempre le scarpe», dice. Lara invece si sente sola «perché all’asilo nessuno gioca con me». In questi ed altri casi che si verificano nei primi ordini scolastici si può già parlare di bullismo? E come fare per contrastare il fenomeno? Lo chiediamo ad Aline Esposito, mediatrice e responsabile del corso di sensibilizzazione sul bullismo di Croce Rossa Svizzera.
«Cominciamo col definire la dinamica del bullismo», esordisce la nostra interlocutrice. «A differenza della classica bravata, è un’azione intenzionale eseguita al fine di arrecare danno a qualcuno. Il bullo, ad esempio, prende continuamente in giro il suo bersaglio, gli dice frasi cattive o spiacevoli, lo minaccia. In certi casi lo colpisce, gli sputa addosso, lo molesta o lo esclude dal gruppo e mette in giro false voci sul suo conto. Nel bullismo classico, quello che si mette in atto faccia a faccia, la vittima è più debole del suo persecutore. C’è uno squilibrio di potere tra chi compie l’azione e chi la subisce».


Altra caratteristica del fenomeno, sempre più diffuso anche alle nostre latitudini, è che dura nel tempo. Spiega Esposito: non basta che mi rubino l’altalena o mi superino nella fila una o due volte, deve capitare costantemente. «Infine nel bullismo sono sempre coinvolti tre attori, tutti in parte responsabili di ciò che accade: il bullo, la vittima e il pubblico. Freud sosteneva che siamo degli iceberg, con una parte visibile e una nascosta. Così il bullo, il quale mostra forza, è in realtà una persona che soffre molto, incapace di esprimere il dolore in maniera adeguata e sana. Per questo mette in atto la dinamica persecutoria (di cui in un qualche modo è anche lui vittima). Mi ricordo di una ragazza delle Medie che perseguitava una compagna. Mi diceva: “È faticoso essere una bulla”». Una persona serena – continua l’intervistata – non mette in atto un meccanismo così faticoso. Il bullismo è un modo di chiedere aiuto, di attirare l’attenzione. «Il bullo ha infatti bisogno di un pubblico che applaude quando apre bocca per sentirsi qualcuno nella sua micro-società. Tolti gli spettatori il bullismo cessa. E qui si apre il capitolo della diffusione della responsabilità: perché gli altri non intervengono, fermando il circolo vizioso?». E la vittima? Viene scelta per sue particolari caratteristiche, osserva Esposito. Se il bullo è un ragazzo con difficoltà scolastiche, probabilmente prenderà di mira un compagno brillante in aula. Se, al contrario, va bene a scuola se la prenderà con chi ha molte insufficienze. Questo alla scuola media, ma torniamo indietro di qualche anno.
«Non parlerei già bullismo alla scuola dell’infanzia», dichiara la mediatrice. Come mai? «Il primo elemento da considerare è l’attendibilità del bambino a quell’età. Un “nessuno gioca con me”, ad esempio, rischia di essere troppo legato alla sua percezione. Un piccolo di 4 o 5 anni non ha infatti la capacità di dispensare descrizioni oggettive delle situazioni, dei fatti». Il consiglio per i genitori è quindi quello di raccogliere resoconti dell’accaduto da più fonti: figlio, altri bambini o genitori, docente, ecc. «In seconda battuta bisogna considerare che gli episodi verificatisi alla scuola dell’infanzia spesso non sono legati ad un’intenzionalità. Dice lo psicologo e pedagogista Piaget: fino ai 7 anni un bimbo ha un atteggiamento orientato alla sensorialità e al soddisfacimento dei suoi bisogni. Riesce a rappresentare le cose solo dal suo punto di vista (tutto gli gira intorno, l’erba ad esempio esiste per attutire le sue cadute). È incapace di mettersi nei panni degli altri e di soppesare le conseguenze delle sue azioni. Così, quando vuole il triciclo, lo prende senza tanti pensieri, eventualmente sottraendolo con forza ad un altro».


Dai 0 ai 6 anni – spiega Esposito – un bambino cerca di capire come relazionarsi al mondo, agli altri. Non ha ancora sviluppato delle capacità empatiche sufficienti. Tutto – pure il litigio, lo spintone, la parolaccia, l’insulto – è un esperimento, un tentativo di comprendere dove finisce lui e incomincia l’altro. Senza intenzioni maligne. «Non escludo che nel tentativo di relazionarsi al mondo il piccolo possa mettere in atto delle dinamiche vessatorie o di esclusione. Ma niente a che vedere con cosa succede dopo: se un bambino di 5 anni non invita un compagno al suo compleanno è perché gli interessa avere gli altri. Se alle Medie ti escludono da un gruppo di Whatsapp è per farti male». In ogni caso, comunque, già alla scuola dell’infanzia possono crearsi degli «eroi negativi». Bimbi che picchiano gli altri, litigano con tutti, non ascoltano la maestra, ecc. «L’etichetta del bulletto sarà poi difficile da scrollarsi di dosso, con tutta una serie di conseguenze negative. Ma quelli non sono, come detto, bulli. Sono bambini che non hanno gli strumenti e le competenze per esprimere i loro bisogni in modo diverso, non riescono a verbalizzare le proprie emozioni, così ricorrono alla fisicità. E sono proprio quei bimbi che rischiano di venire in seguito esclusi perché considerati cattivelli».


Il bullismo classico appare alle scuole elementari – dice l’esperta – quando appunto appare l’intenzionalità. Mentre il ciberbullismo si manifesta più tardi, durante gli anni di scuola media (leggi articolo in basso). Inoltre si rilevano delle «differenze di genere»: quando il bullismo riguarda i maschi è molto fisico (insulti aperti, pugni e calci, danni a oggetti). Se interessa le femmine assume tendenzialmente la forma di una persecuzione psicologica (danneggiare la reputazione di una compagna, farla sentire non adatta per come si veste, per com’è fisicamente). «Ma i confini sono sfumati, specie alle Elementari».


Come si interviene nei vari tipi di situazioni spiacevoli durante i primi ordini scolastici? Risponde Esposito: «È importante che le maestre di scuola dell’infanzia e scuola elementare lavorino sulla capacità del bambino di esprimere i suoi bisogni, le emozioni e il disagio in modo adeguato, creando delle competenze di base solide. Bisogna spiegargli che le emozioni nascono dalla pancia, poi viaggiano fino alla testa che le capisce e questa le comunica alle mani o alle labbra. Loro le esprimono con carezze, baci, abbracci, parole o parolacce. In questo modo si rafforzano le abilità pro-sociali: dialogo, capacità di prendere decisioni, confronto con gli altri e autoregolazione».
Mentre i genitori delle vittime cosa possono fare? «È fondamentale che riescano a distanziarsi dalla situazione per essere il più obiettivi possibili», afferma la nostra interlocutrice. «Devono distinguere la loro sofferenza da quella del figlio. Dare spazio alle emozioni del piccolo. Poi devono cercare di aiutare il bambino a riconoscere le sue risorse personali con un ascolto attivo accogliente e capire come fare a stare coi pari, provando a mettere in atto delle strategie e dei comportamenti diversi: “Nessuno ha giocato con te? Dev’essere stato brutto. Cosa potresti fare domani per stare bene?”. Se la situazione non rientra è importante creare una rete attorno al bimbo: prendere contatto con i docenti e i genitori degli altri che spesso sono ignari di quello che accade. Spiegare al persecutore le conseguenze delle sue azioni: “Quando non lo lasci giocare lui si sente triste”. In questo modo si può tentare di prevenire il verificarsi di questa dinamica e arginare gli effetti negativi del bullismo».
SE PASSA DA INTERNET È PIÙ CATTIVO

Anche in Ticino il ciberbullismo o cibermobbing è sempre più diffuso, come dice Aline Esposito, a partire dalla scuola media. Ed è una variante per così dire più aspra del «bullismo classico» (faccia a faccia). Perché? I motivi sono tre, si legge su «My little safebook», un opuscolo della polizia e del servizio Prevenzione svizzera della criminalità (PSC) destinato ai genitori. «Primo: la rapida diffusione. (...) Tutta la comunità viene informata in breve tempo e tende ad accettare il ruolo della vittima piuttosto che informarsi ed essere solidale». Le armi usate sono, oltre agli insulti, anche foto compromettenti (nudi) che la vittima aveva diffuso in Rete, che aveva mandato ad un amico (ora un ex amico) oppure immagini ritoccate con Photoshop. Talvolta il «bersaglio» viene colpito e filmato, mentre il video finisce online. «Secondo motivo: l’anonimità di colui che commette il mobbing. La possibilità di aprire un account con un falso profilo da una qualunque piattaforma rende impossibile identificare il ciberbullo. La vittima a volte non sa da chi viene attaccata, e questa sensazione di incertezza è molto straziante. (...) Terzo: il salvataggio incontrollato di dati. Internet non scorda nulla! (...) Il fatto che tutti i testi, le immagini o i filmati immessi possano essere salvati e diffusi in modo incontrollato è forse il più grande problema. (...) Prima di caricare dati e immagini private, ci si deve prima sempre porre la domanda: questi documenti potrebbero essere in qualche modo usati contro di me se finissero nelle mani sbagliate?». Se la risposta è un netto no bene, altrimenti meglio lasciar perdere. Inoltre, secondo gli autori, è importante trattare i dati privati degli altri con la stessa sensibilità ed accortezza usata per i propri. Chi, ad esempio, sul Web si imbatte in una foto imbarazzante di un compagno di classe e senza pensarci la diffonde, si rende complice di bullismo. Il mobbing «non è un atto di forza, ma è una terribile azione di violenza. Tutto quello che si fa in un gruppo e proteggendosi nel gruppo dal singolo, è un atto di viltà. Questo è il messaggio da trasmettere a vostro figlio».
Ma come si può aiutare un figlio vittima di bullismo? La cosa migliore sarebbe quella di «discuterci per vedere se davvero di bullismo si tratta. Infatti non si può dire che una qualunque offesa sia mobbing e che ogni chiamata indesiderata sia stalking». Il linguaggio giovanile è diventato molto duro, ma a volte non nasconde cattive intenzioni. Se, per esempio, due ragazzine si chiamano «bitch» o «troia» può essere una maniera scherzosa di comunicare. «Nel mobbing invece non c’è più alcuna comunicazione, solo le offese e le ingiurie che vengono da una sola parte. Se ci sono prove (come i post in bacheca), dovete salvarle per procedere con una denuncia». Poi bisogna cercare di scoprire da chi provengono i messaggi o le foto e avvisare i genitori dell’autore/diffusore.