Care Team, quella carezza nei momenti più difficili

Si chiama Care Team Ticino, viene abbreviato con la sigla CTTi, impiega militi della Protezione civile e, in estrema sintesi, è un servizio che offre, nell’immediato, sostegno psicosociale a chi – famigliari o persone coinvolte – assiste a eventi potenzialmente traumatici come catastrofi, morti improvvise o incidenti gravi.
Il servizio è attivo 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, grazie al picchetto e – allargando il campo – a un instancabile lavoro dei volontari. Una mano tesa, una carezza diciamo, rivolta a chi subisce in prima persona un determinato evento o a chi, come dicevamo, vi assiste.
Nel 2022, il CTTi è intervenuto in diversi campi. Citiamo il comunicato: decessi improvvisi in casa (27), suicidi (24), incidenti stradali (14), decessi in luoghi pubblici (6), decessi sul lavoro (5), decessi in montagna (5), annegamenti (5), omicidi (3), decessi nel tempo libero (3), infortuni gravi sul lavoro (2) e altri (6). Gli interventi, 100 complessivamente fino ad oggi, sono aumentati del 30% dall’anno scorso; da gennaio a novembre il CTTi è stato chiamato ogni mese da 6 a 12 volte per prestare assistenza a 540 persone durante oltre 800 ore di intervento.
Non solo, il CTTi ha pure formato, oltre ai propri operatori denominati care givers anche enti esterni che offrono un supporto (peer) ai loro collaboratori e in particolare un gruppo cantonale della Federazione dei corpi pompieri.
Per capirne di più ci siamo rivolti a Massimo Binsacca, caposervizio e coordinatore di Care Team Ticino.
Signor Binsacca,
partiamo da una considerazione banale: in pochi sanno, quando leggono le
cronache locali, che il Care Team Ticino è un servizio basato sul volontariato.
«Esatto. Parliamo di
persone che hanno una loro professione: dall’educatore al maestro di scuola,
passando per l’infermiere. È un gruppo molto eterogeneo. Queste persone si sono
messe a disposizione per svolgere l’attività, previa una formazione specifica».
Immaginiamo che,
proprio per la sua natura, sia complicato organizzare una turnistica adeguata e
garantire un servizio sempre attivo. O no?
«La nostra pianificazione
prevede che, in ogni momento, ci siano sempre due persone di picchetto. Sette
giorni su sette, per una settimana. La pianificazione, va da sé, prevede una
rotazione. Grosso modo, ogni care giver viene impiegato dalle due alle
quattro settimane all’anno».
In che cosa
consiste la formazione di un care giver?
«Fondamentalmente, si
tratta di una formazione legata alla comunicazione, all’ascolto attivo, alle
basi di psico-traumatologia, ma anche ai vari aspetti legati alla nostra
interventistica. Mi spiego: quest’anno, un quarto dei nostri interventi è stato
per suicidio. Abbiamo quindi previsto un corso di perfezionamento appositamente
costituito su questa tematica. E questo perché dobbiamo saper trattare, e
quindi capire, le difficoltà che una persona può incontrare di fronte a un
evento del genere. Sì, formiamo le persone anche su ambiti specifici».


Detto che siete, di
fatto, un ente di primo intervento, chi si occupa della salute dei care
giver? Ovvero, su quali strumenti possono contare per «sfogarsi» in seguito
al servizio prestato? Non è scontato mantenere l’equilibrio dopo aver lavorato
in contesti delicati e difficili.
«Io dico sempre che è
importante curare i curanti. Comunque, alla fine di ogni intervento il
coordinatore di picchetto parla con i care giver, che già si sono
confrontati fra loro. Il fatto di uscire in due, insomma, aiuta a far calare un
po’ le emozioni. Nelle 24-48 ore successive a un intervento li sento io: per
conoscere la storia, innanzitutto, visto che se c’è bisogno di indirizzare le
persone assistite verso ulteriori cure è il mio, di telefono, a squillare. Una
volta al mese, infine, organizziamo delle supervisioni con una psicologa. Così
tutti possono buttare fuori quello che hanno dentro, ma anche avere risposte e
strumenti per affrontare un prossimo intervento. Non dovesse essere
sufficiente, qualora vedessimo che un nostro care giver avesse bisogno
di più, a quel punto intervengono terapie specifiche».
Com’è il rapporto
con gli altri attori? Pensiamo a polizia e ambulanze.
«Il rapporto con gli altri
attori è ottimo, davvero. I nostri primi attivatori, come li chiamiamo noi,
sono la polizia e le autoambulanze. Il nostro servizio, però, oramai è molto
conosciuto e sempre più capillare. Capita dunque che ci chiamino direttamente
anche dagli uffici, ad esempio. Noi, ad ogni modo, interveniamo solo per morti
improvvise e non di fronte a malattie».
Parliamo dei dati:
quelli sugli interventi per suicidio sono estremamente preoccupanti. Che cosa
può dirci?
«I dati sono estremamente
preoccupanti. È storia recente, di un paio di giorni fa: in
Svizzera c’è stato un aumento senza precedenti dei ricoveri psichiatrici tra i
10 e i 24 anni, in particolare fra le ragazze. Questa fragilizzazione è
dovuta in parte alla pandemia. Evidentemente, capita che una persona magari non
veda più la luce in fondo al tunnel e passi al gesto estremo. Credo che parlare
di suicidio possa avere un ruolo preventivo. Che sia giusto parlarne, senza
riferirsi necessariamente all’evento stesso. In certe culture, un po’ come
avviene con la morte, non se ne parla perché si ritiene sia un tabù. Ma in una
società fragile come la nostra, ecco, il suicidio è diventato un tema
importante su cui riflettere».


In questo senso, e
concludendo, detto che il Care Team è un ente di primo intervento che cosa
potete fare in ottica preventiva?
«È difficile. Quando
presento il Care Team in vari consessi, dico e chiedo di divulgare il nostro
servizio. Ma lo faccio nell’ambito della psicoterapia. Il nostro intervento, si
spera, deve avere un effetto immediato. Deve cioè, fare in modo che le persone
possano subito riprendere in mano la loro quotidianità. Non tutti, però,
reagiscono allo stesso modo. E quindi necessitano di ulteriore aiuto e, ancora,
di una rete di professionisti. C’è, in alcune zone del cantone, ancora un po’
di reticenza in merito. Come se andare da uno psicologo fosse una cosa riservata
ai matti. Non è così, lo psicologo serve a chi, in quel momento, ha bisogno di
essere guidato. Andarci non deve essere una vergogna».