L’intervista

Care Team, quella carezza nei momenti più difficili

Con Massimo Binsacca tracciamo un bilancio dell’attività: «Nel 2022 un quarto degli interventi è stato per suicidio, è giusto parlarne»
© CdT/Gabriele Putzu
Marcello Pelizzari
16.12.2022 12:33

Si chiama Care Team Ticino, viene abbreviato con la sigla CTTi, impiega militi della Protezione civile e, in estrema sintesi, è un servizio che offre, nell’immediato, sostegno psicosociale a chi – famigliari o persone coinvolte – assiste a eventi potenzialmente traumatici come catastrofi, morti improvvise o incidenti gravi.

Il servizio è attivo 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, grazie al picchetto e – allargando il campo – a un instancabile lavoro dei volontari. Una mano tesa, una carezza diciamo, rivolta a chi subisce in prima persona un determinato evento o a chi, come dicevamo, vi assiste.

Nel 2022, il CTTi è intervenuto in diversi campi. Citiamo il comunicato: decessi improvvisi in casa (27), suicidi (24), incidenti stradali (14), decessi in luoghi pubblici (6), decessi sul lavoro (5), decessi in montagna (5), annegamenti (5), omicidi (3), decessi nel tempo libero (3), infortuni gravi sul lavoro (2) e altri (6). Gli interventi, 100 complessivamente fino ad oggi, sono aumentati del 30% dall’anno scorso; da gennaio a novembre il CTTi è stato chiamato ogni mese da 6 a 12 volte per prestare assistenza a 540 persone durante oltre 800 ore di intervento.

Non solo, il CTTi ha pure formato, oltre ai propri operatori denominati care givers anche enti esterni che offrono un supporto (peer) ai loro collaboratori e in particolare un gruppo cantonale della Federazione dei corpi pompieri.

Per capirne di più ci siamo rivolti a Massimo Binsacca, caposervizio e coordinatore di Care Team Ticino.

Signor Binsacca, partiamo da una considerazione banale: in pochi sanno, quando leggono le cronache locali, che il Care Team Ticino è un servizio basato sul volontariato.
«Esatto. Parliamo di persone che hanno una loro professione: dall’educatore al maestro di scuola, passando per l’infermiere. È un gruppo molto eterogeneo. Queste persone si sono messe a disposizione per svolgere l’attività, previa una formazione specifica».

Immaginiamo che, proprio per la sua natura, sia complicato organizzare una turnistica adeguata e garantire un servizio sempre attivo. O no?
«La nostra pianificazione prevede che, in ogni momento, ci siano sempre due persone di picchetto. Sette giorni su sette, per una settimana. La pianificazione, va da sé, prevede una rotazione. Grosso modo, ogni care giver viene impiegato dalle due alle quattro settimane all’anno».

In che cosa consiste la formazione di un care giver?
«Fondamentalmente, si tratta di una formazione legata alla comunicazione, all’ascolto attivo, alle basi di psico-traumatologia, ma anche ai vari aspetti legati alla nostra interventistica. Mi spiego: quest’anno, un quarto dei nostri interventi è stato per suicidio. Abbiamo quindi previsto un corso di perfezionamento appositamente costituito su questa tematica. E questo perché dobbiamo saper trattare, e quindi capire, le difficoltà che una persona può incontrare di fronte a un evento del genere. Sì, formiamo le persone anche su ambiti specifici».

Io dico sempre che è importante curare i curanti. Comunque, alla fine di ogni intervento il coordinatore di picchetto parla con i care giver, che già si sono confrontati fra loro

Detto che siete, di fatto, un ente di primo intervento, chi si occupa della salute dei care giver? Ovvero, su quali strumenti possono contare per «sfogarsi» in seguito al servizio prestato? Non è scontato mantenere l’equilibrio dopo aver lavorato in contesti delicati e difficili.
«Io dico sempre che è importante curare i curanti. Comunque, alla fine di ogni intervento il coordinatore di picchetto parla con i care giver, che già si sono confrontati fra loro. Il fatto di uscire in due, insomma, aiuta a far calare un po’ le emozioni. Nelle 24-48 ore successive a un intervento li sento io: per conoscere la storia, innanzitutto, visto che se c’è bisogno di indirizzare le persone assistite verso ulteriori cure è il mio, di telefono, a squillare. Una volta al mese, infine, organizziamo delle supervisioni con una psicologa. Così tutti possono buttare fuori quello che hanno dentro, ma anche avere risposte e strumenti per affrontare un prossimo intervento. Non dovesse essere sufficiente, qualora vedessimo che un nostro care giver avesse bisogno di più, a quel punto intervengono terapie specifiche».

Com’è il rapporto con gli altri attori? Pensiamo a polizia e ambulanze.
«Il rapporto con gli altri attori è ottimo, davvero. I nostri primi attivatori, come li chiamiamo noi, sono la polizia e le autoambulanze. Il nostro servizio, però, oramai è molto conosciuto e sempre più capillare. Capita dunque che ci chiamino direttamente anche dagli uffici, ad esempio. Noi, ad ogni modo, interveniamo solo per morti improvvise e non di fronte a malattie».

Parliamo dei dati: quelli sugli interventi per suicidio sono estremamente preoccupanti. Che cosa può dirci?
«I dati sono estremamente preoccupanti. È storia recente, di un paio di giorni fa: in Svizzera c’è stato un aumento senza precedenti dei ricoveri psichiatrici tra i 10 e i 24 anni, in particolare fra le ragazze. Questa fragilizzazione è dovuta in parte alla pandemia. Evidentemente, capita che una persona magari non veda più la luce in fondo al tunnel e passi al gesto estremo. Credo che parlare di suicidio possa avere un ruolo preventivo. Che sia giusto parlarne, senza riferirsi necessariamente all’evento stesso. In certe culture, un po’ come avviene con la morte, non se ne parla perché si ritiene sia un tabù. Ma in una società fragile come la nostra, ecco, il suicidio è diventato un tema importante su cui riflettere».

In questo senso, e concludendo, detto che il Care Team è un ente di primo intervento che cosa potete fare in ottica preventiva?
«È difficile. Quando presento il Care Team in vari consessi, dico e chiedo di divulgare il nostro servizio. Ma lo faccio nell’ambito della psicoterapia. Il nostro intervento, si spera, deve avere un effetto immediato. Deve cioè, fare in modo che le persone possano subito riprendere in mano la loro quotidianità. Non tutti, però, reagiscono allo stesso modo. E quindi necessitano di ulteriore aiuto e, ancora, di una rete di professionisti. C’è, in alcune zone del cantone, ancora un po’ di reticenza in merito. Come se andare da uno psicologo fosse una cosa riservata ai matti. Non è così, lo psicologo serve a chi, in quel momento, ha bisogno di essere guidato. Andarci non deve essere una vergogna».