«Chiediamo aiuto e perdono»: la svolta della diocesi ticinese

La Chiesa di Lugano invoca il perdono dei fedeli. Chiede loro aiuto. E ammette la propria «umana fragilità».
Un breve comunicato, inviato questa sera poco prima delle 20 alle redazioni, apre uno squarcio inatteso nell’ovattato mondo della curia di via Borghetto. Il «messaggio» stilato al termine della seconda assemblea diocesana del presbiterio, in pratica la riunione dei preti e dei diaconi, è un elemento nuovo rispetto al passato, anche recente. E dimostra quanto grave sia il momento vissuto dalla (e nella) Chiesa cattolica ticinese.
L’arresto, alcune settimane fa, di don Rolando Leo e le pesanti accuse rivolte all’ormai ex responsabile della Pastorale giovanile sono state, evidentemente, un colpo durissimo. Per assorbire il quale l’amministratore apostolico, monsignor Alain de Reamy, ha voluto convocare in un “conclave” i suoi sacerdoti.
Due giorni di discussione a porte chiuse, peraltro già programmati da tempo. Due giorni, probabilmente, in cui agli sguardi smarriti e attoniti di alcuni si sono sovrapposti la determinazione e la fermezza di altri nel chiedere una svolta. Un segnale preciso.
Ecco, allora, il messaggio rivolto «ai fedeli della diocesi», a chi nella Chiesa ha sempre creduto e che oggi, quasi certamente, è scosso in profondità dalla durezza dei fatti e da avvenimenti tanto imprevedibili quanto dolorosi.
«Riuniti in assemblea, vi pensiamo con grande rispetto e profondo affetto - scrivono il vescovo, i sacerdoti e i diaconi di Lugano - battezzati e cresimati, siamo tutti insieme la Chiesa cattolica in Ticino. Avendo ricevuto per voi il dono dell’ordinazione che ci supera, siamo coscienti della nostra umana fragilità. Se a volte vi abbiamo feriti con parole o gesti, vi chiediamo umilmente perdono. Siateci sempre vicini, in modo aperto e critico. Vogliamo assumere la nostra responsabilità pastorale con verità, umiltà e carità».
«Quest’assemblea - si legge ancora nel messaggio - ci ha fatto sperimentare la necessità di vivere il nostro servizio in una sempre più grande fraternità fra noi e con voi. Abbiamo ricevuto un dono inestimabile: Gesù e il suo Vangelo. Non c’è altro modo di custodirlo e annunciarlo se non vivendolo fino in fondo, insieme a voi».
Il riferimento all’umana fragilità è chiaro, evidente. Non ha quasi bisogno di commento. Non così invece la scelta - questa sì nuova, almeno a Lugano - di parlarne pubblicamente. Di non nasconderla. Siamo preti, e anche uomini, sembrano dire i sacerdoti e i diaconi ticinesi. Sbagliamo e dobbiamo, perciò, essere giudicati. Ma, aggiungono rivolgendosi al popolo di Dio, «vi preghiamo di aiutarci a essere veri e buoni pastori nel gregge che ci comprende, voi e noi, come discepoli missionari di Cristo. L’Anno Santo comincerà a Natale: ci aiuti a essere, con Papa Francesco, pellegrini di speranza per tutti. Pregate per noi».
Anche l’accenno a Bergoglio non è, probabilmente, del tutto casuale, quanto piuttosto cercato e voluto. Il pontefice argentino ha rinnovato in profondità la Chiesa e ha condotto una battaglia senza quartiere contro le gerarchie che hanno nascosto o negato gli abusi e le violenze in àmbito religioso ed ecclesiale. Il richiamo al Papa è un altro segnale preciso di una Chiesa ticinese che cambia e va nell’unica direzione possibile. Quella della trasparenza, della verità. Della «parresia», direbbe Francesco, ovvero della necessità di non negare mai l’evidenza e di parlare liberamente.
Ovvio che tutto questo non potrà diventare un alibi. Non sarà cioè un messaggio, un sofferto atto di contrizione, a cancellare ciò che è accaduto e a risolvere i problemi. La Chiesa ticinese è chiamata ad affrontare a viso aperto le proprie debolezze. Ben sapendo che se la responsabilità penale è personale, quella morale- soprattutto nell’istituzione comunitaria per antonomasia - è collettiva.