Daniele Dondè: «Sono l’inventore del “falso d’autore”»

Tra i soggetti preferiti di Daniele Dondè – prima che appendesse i pennelli al chiodo, nel 2015 – c’era Audrey Hepburn. Ironicamente, la stessa attrice americana, oggi più che mai iconica, fu protagonista nel 1966 di un film nel quale vestiva i panni della figlia di un falsario. La commedia in questione – irresistibile tra l’altro – era Come rubare un milione di dollari e vivere felici. Daniele Dondè ha impostato la sua intera carriera sui falsi. «La mia professione? Ero un falsario», sottolinea sicuro. Non dice «pittore». No, dice falsario. Un’avventura, la sua, durata trent’anni, che l’ha portato a conoscere personaggi di varia natura, tra essi forse anche qualche bandito. Lui stesso si definisce tale. Un bandito dell’arte.
Daniele Dondè, nel suo ambito qual è la differenza tra un falso e un doppio?
«Nel mondo dell’arte esistono le copie ed esistono i falsi d’autore. Le copie non hanno nulla d’autore, chiunque può farne una: sono disegni colorati allo stesso modo dell’originale. Il falso d’autore è invece un’interpretazione fedele non solo del disegno, bensì della tecnica dell’autore originale. La tecnica è il segreto del falsario. Una volta capita la tecnica, poi bisogna interpretare l’opera senza mettere nulla di proprio. Solitamente i falsari si specializzano su un determinato autore, proprio per una questione di tecnica. Poi se un falsario fa un falso perfetto, allora può anche firmarlo, con la firma dell’originale. È permesso per legge. È permesso se concerne autori morti da oltre settant’anni. Una questione legata ai diritti. Di Picasso, insomma, purtroppo (dice davvero «purtroppo» – ndr) non si possono dipingere falsi. In sostanza ho creato io il falso legale; ed è colpa mia se la legge ha spostato da cinquanta a settanta gli anni d’attesa obbligatoria. Io, con chi mi imitava, stavo inflazionando il mercato dei falsi».



Ma cosa rende legale un falso?
«Dietro un falso d’autore, lo dice l’espressione stessa, c’è un autore, un artista, in grado di interpretare un’opera alla maniera dell’originale, con la firma che è esattamente la stessa. La misura è la stessa, così come uguali sono materiale e tela. Tu, falsario, in un falso d’autore non esisti, darai solo un pezzo di carta, un certificato, grazie al quale dirai che l’hai fatto tu, che è un falso. Il valore di un falso però, pur non portando la firma del suo autore, dipende comunque da chi lo esegue. Anche tanti grandi pittori hanno iniziato come falsari, anche Picasso. Oggi un falso dipinto da Picasso varrebbe ancor di più di un suo originale».
Come riesce a falsificare l’identità di un artista?
«L’essere falsario è un amore che uno ha dentro, è una sfida con se stessi. Uno se no diventa al massimo copista, disegnatore di opere altrui. Essere falsari è un dono. Come c’è un’epica romantica riguardante i rapinatori di banche, lo stesso vale per i falsari. I falsari legali sono banditi con la licenza d’uccidere. Come un bandito, come un rapinatore che prima del colpo studia la banca che ha nel mirino, il falsario studia l’autore a cui deve ispirarsi, studia gli originali. Io studio anche per giorni l’originale, e poi se devo fare un Van Gogh, in quei giorni mi sentirò anche un po’ Van Gogh. È una questione di empatia».
Quando ha riconosciuto con se stesso di essere un falsario, prima che un pittore?
«Presto. Io sono cresciuto con queste persone, con i falsari. Vengo da Cremona, città dei violini, città d’arte, da una famiglia di industriali, collezionisti. Vedevo i quadri di famiglia e li sognavo in eredità. Poi ho scoperto, una volta ricevuti, che all’ottanta per cento erano tarocchi. Una volta i galleristi, complici gli esperti, sfruttavano i loro clienti ricchi. Be’, volli conoscere quei falsari, gli autori di alcune opere di famiglia, ne rimasi affascinato. Quelle frequentazioni si trasformarono in insegnamenti, in segreti. Poi un giorno dipinsi un De Chirico il cui originale apparteneva a mio zio: gli riportai il quadro, o meglio, gli portai il mio falso. Be’, non si accorse. Lì capii».


I clienti...
«Scoprii che il falso va portato dove c’è gente ricca. Approfittai quindi delle conoscenze di famiglia, del giro di Monte Carlo, dei grandi alberghi, di Gstaad, di St. Moritz, di Miami. Di fronte a un falso si formalizzano solo le persone umili. Ovvio che un falso Van Gogh stoni in una casa più umile. Non se vai in casa Agnelli. Ecco, gli Agnelli sono sempre stati miei clienti. Nessuno si sarebbe mai permesso di chiedere a Gianni Agnelli se un suo quadro fosse vero o fosse falso. Insomma, capii che più in alto fossi andato, più quadri avrei venduto e più sarei stato accettato. Una vita comunque non facile come si potrebbe invece credere, al di là della mia spavalderia. In tutti i casi, non avessi fatto questo lavoro, difficilmente certi personaggi mi avrebbero guardato in faccia. Con quei quadri, con quei falsi, mi volevano bene. Nomi anche intoccabili, a volte, impossibili da avvicinare. Pericolosi? Mah, il falsario attrae vari tipi di persone. Ricevetti delle proposte indecenti, sì, e in qualche caso mi ritenni fortunato nel momento in cui mi liberai di esse. Un lavoro un po’ al limite, soggetto a tanti incontri. Io ho sempre voluto comportarmi bene, proprio per non entrare nel mercato sporco».
Lei è sempre in grado di distinguere un vero da un falso?
«Ritengo che questo sia in effetti il mio dono. Questo ho. So riconoscere un vero da un falso».
Vale lo stesso con le persone?
«Lì sono più in difficoltà, ma credo di sì. Io so di essere vero, non so sorridere a comando, sono genuino, persino in questa intervista sto dicendo cose che non vorrei dire. Credo nella verità, nell’autenticità».



Un paradosso, per un falsario. A suo avviso, il nostro è più un mondo di doppi o di falsi?
«Di doppi. Fatichiamo a essere noi stessi. I giovani, in particolare, vogliono imitare, sempre di più, i loro modelli. Oggi vogliono essere pettinati come i calciatori, atteggiarsi come loro, facendo i superman. Di nostro, in fondo, c’è solo l’anima. Io riconosco la mia anima, ma poi anch’io ho una corazza, un mio doppio. Nell’arte vale lo stesso concetto. Si parla di movimenti, di filoni, che si succedono, nei quali ognuno prende ispirazione dall’altro. Nasce il surrealismo? E allora via a copiarsi: tutti diventano surrealisti. Quando io mi specializzai nei falsi d’autore, tanti altri diventarono falsari a loro volta, anche se fino a poco tempo prima se ne sarebbero vergognati. Adesso comunque io mi sono ritirato. Il falso è stato il mio grande amore. Ancora oggi, se in una mostra c’è un quadro che fa discutere per la sua autenticità, io subito ci vado e godo un mondo, magari mi faccio un’idea ma me ne sto zitto».
Una volta disse che un suo falso Picasso, per chi lo ama, diventa vero...
«Un piccolo aneddoto. In occasione di una mia mostra all’Hilton di Milano si presentò a me un tassista. Disse di essersi innamorato di un mio De Chirico, mi disse che il suo sogno era di regalarlo alla figlia. Beh, glielo consegnai. Quell’uomo pianse davanti a me. Sentiva di avere tra le mani un quadro, un quadro vero, ma non un quadro di De Chirico, bensì un quadro mio di De Chirico. L’importante è ciò che piace a noi, che ci piace davvero, non ciò che ci viene imposto. Comprare un falso è una questione di intelligenza: chi compra un falso è una persona che non ha pregiudizi, una persona forte. Solo un poveretto si formalizza, della serie “Oh, un falso in casa mia mai”. Tornando ad Agnelli: avrebbe potuto comprare qualsiasi originale, ma amava comunque i miei falsi».