Scoperte

Darsene, spiagge e «casotte»Il Ticino ignoto ai ticinesi

Viaggio sulle sponde italiane del fiume che dà il nome al nostro cantone
Una veduta aerea del fiume Ticino a Vigevano verso nord. (Foto Umberto Bocca)
Carlo Silini
15.03.2019 20:05

C’è un Ticino fuori del Ticino che i ticinesi non conoscono, quello che esce dal Lago Maggiore a Sesto Calende e scende a sud fino a Pavia prima di congiungersi al Po. Sulle sponde italiane dello stesso fiume che dà il nome al nostro cantone esiste un piccolo mondo fatto di pescatori, cercatori di funghi o d’oro, darsene e «casotte», piccoli edifici che negli anni Sessanta e Settanta erano veri e propri templi del tempo libero e in parte lo sono ancora. I suoi frequentatori si chiamano «Tisinat». È al loro pittoresco microcosmo che l’architetto italiano residente a Rovio, Mario Castellani, ha dedicato il suo ultimo libro - «Tisin e Tisinat. Vigevanesi al fiume», Ciost edizioni. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare un Ticino di cui ignoriamo quasi tutto.

La premessa è geografica. Se il corso superiore o montano del fiume Ticino scorre per 91 chilometri in Svizzera, (dal San Gottardo al Lago Maggiore), quello inferiore e italiano ne misura 110 e attraversa la vallata della pianura tra Lombardia e Piemonte. Qui il suo corso è quasi selvaggio, rendendo vano «ogni tentativo di controllo delle sue acque con rigide sponde». Un paradiso naturalistico con due parchi regionali, quello lombardo e quello piemontese, e un’invidiabile biodiversità riconosciuta dall’Unesco. È qui, più precisamente nella zona fluviale attorno a Vigevano che, macchina fotografica e calepino degli appunti alla mano, Castellani ha svolto la sua inchiesta. Ecco il suo racconto.

Mario Castellani, la forma del fiume Ticino, in Italia, è assai diversa da quella in territorio svizzero.

«Sì. Il fiume è ancora così. Dall’uscita dal lago fino a Pavia, ha una conformazione di carattere torrentizio. Ha due piene all’anno e due periodi di magra che influiscono sul territorio. Quando c’è una piena il fiume si può allargare anche a un chilometro o due. È un’area non antropizzata, visto che il fiume si espande e si ritira. L’unica zona urbanizzata è quella di Pavia».

Lungo questo fiume mutevole lei ha documentato la presenza delle cosiddette casotte. Di cosa si tratta?

«Nel libro parlo dell’evoluzione, del passaggio dal periodo dello svago legato alle osterie, all’utilizzo della zona al di là della pesca, anche come punto di balneazione. E siamo negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Erano zone di balneazione attrezzate, di colonie elioterapiche estive per bambini. Con la fine della guerra, queste strutture organizzate dal regime sono andate perse. Ed è cominciata una frequentazione un po’ più libertaria ed anarchica del territorio, da parte soprattutto di cercatori di funghi e di pescatori».

Cosa hanno fatto?

«Hanno cominciato a costruirsi delle piccole baracche provvisorie in legno e in frasche. E qualcuno ha messo in piedi anche una piccola attività di osteria. Grazie alla pesca, venivano serviti dei pesciolini d’acqua dolce fritti, le bottine, con del vino e delle gassose. Strutture provvisorie per il periodo estivo che servivano per i pasti veloci. Poco per volta si è cominciato a costruirne sempre di più, come luoghi di attività ricreativa del tempo libero. Nella parte alta, queste strutture sono più famigliari e sono legate alle attività del weekend come i pranzi, le cene o la coltivazione di ortaggi».

E sul fiume?

«Sul fiume sono strutture di gruppi di amici, di soci. La particolarità è che questi gruppi non sono proprietari del terreno. I terreni sono quasi tutti privati e venivano concessi in affitto a questi gruppi di amici che costruivano la casotta. Pagavano l’affitto per un certo numero di anni, poi l’edificio tornava al proprietario e da lì in avanti continuava l’affitto. In una certa zona so che i proprietari si facevano pagare con una sterlina-oro annuale».

Chi sono i Tisinat?

«Adesso, a dire il vero, persistono i vecchi, gli anziani, la gente legata al territorio. Una gran parte è costituita dai pescatori, vanno con le barche o vanno a raccogliere funghi, Vivono l’ambiente naturale secondo una logica di sfruttamento e di gestione del territorio. Non sono ambientalisti. Però conoscono i loro ambienti. Li girano con le barche, ne conoscono tutti gli angoli. E ci sono anche i canoisti. Poi ci sono i frequentatori delle casotte. Non vanno in barca, ma frequentano il territorio sulla sponda in gruppi famigliari o di amici. Gestiscono questi edifici come luoghi del tempo libero. Ci si ritrova per passare il tempo a giocare a carte o a preparare la cena del sabato sera o il pranzo della domenica».