«Dividere l’umanità in razze non aiuta a capire le differenze»
«Le razze ce le siamo inventate, le abbiamo prese sul serio per secoli, ma adesso ne sappiamo abbastanza per lasciarle perdere. Oggi sappiamo che siamo tutti parenti e tutti differenti, secondo un bello slogan coniato dal genetista francese André Langaney». È la tesi del genetista Guido Barbujani, che lunedì sarà a Lugano per parlare di razzismo (cfr. box a fine articolo).
Professor
Barbujani, partirei da una sua affermazione molto netta: «Siamo tutti africani,
tutti discendenti di antenati che, non molto tempo fa, se ne stavano nell’Africa
orientale, e da lì sono usciti riuscendo a colonizzare in poche migliaia di
anni tutto il pianeta. Abbiamo avuto troppo poco tempo, e troppo poco
isolamento, perché nell’uomo si formassero razze biologiche distinte». Niente
razze nell’uomo, dunque, ma soltanto molte differenze «che stanno scritte solo
un po’ nel nostro DNA, e moltissimo nella nostra cultura, nei diversi modi di
vivere e di pensare che abbiamo sviluppato nel corso dei millenni». In termini
più semplici, perché, a proposito degli esseri umani, è sbagliato parlare di
razze?
«Perché
ragionare in termini di razze significa dare per scontato che dietro le parole
con cui definiamo i gruppi di persone - i bianchi, i neri, gli asiatici, gli
ispanici, i turchi, gli svizzeri… - ci siano individui tutti identici o simili
fra loro. Invece oggi sappiamo che ognuno di questi gruppi comprende gente
molto diversa dal punto di vista genetico; se vogliamo trovare per ciascuno di
noi i farmaci giusti, o il donatore giusto per un trapianto d’organo, dobbiamo
andare a guardare le nostre caratteristiche individuali, non le etichette
etniche o razziali».
Tuttavia,
il pregiudizio è molto resistente, tutti vi ricorrono, spesso anche in maniera
inconscia. Evitarlo non è così facile.
«Nelle
situazioni di cui non abbiamo esperienza - e sono parecchie, nella vita: il
primo titolo dell’Insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera
era Il pianeta dell’inesperienza - dobbiamo per forza far ricorso a
pregiudizi. Però a nessuno di noi fa piacere essere trattato come anonimo
esponente di una categoria - ancora una volta: un bianco, un nero, una turca,
una svizzera; ma anche un vecchio, una disoccupata, un immigrante… - Dunque,
far ricorso a pregiudizi a volte è inevitabile, ma superarli sostituendoli,
appena possibile, con giudizi, è molto consigliabile».
È
possibile convincere le persone che tutti gli esseri umani hanno identiche
potenzialità? E come farlo?
«Non
credo che tutti gli esseri umani abbiano uguali potenzialità. Fin da
piccolissimi, ci sono bambini più impulsivi o più riflessivi, bambini che
coordinano meglio i propri movimenti e altri che si esprimono meglio con le
parole…. Siamo esseri viventi, le nostre differenze sono anche - anche! -
scritte nel DNA. Però, al momento, nessuno sa dire da quali geni dipendano, e
quanto contino davvero questi geni rispetto a tanti altri fattori sociali e
culturali. Il punto, quindi, è un altro: come cittadini vivremo meglio se la
nostra società metterà tutti in grado di sviluppare le proprie potenzialità,
indipendentemente dal sesso, dalle origini geografiche, dalla religione, dalle
condizioni economiche e sociali. Non è poi una novità: nel 1948 l’avevano già
scritto nella Costituzione italiana. Che questo bel principio sia stato poi
messo in pratica, beh, questo è un altro discorso».
Perché
non ha senso il “catalogo razziale” dell’umanità?
«Perché
i cataloghi razziali nascono nell’Ottocento, quando si studiava quello che si
poteva: la lunghezza delle ossa, la forma del cranio, il colore della pelle.
Questi dati hanno molti limiti, e infatti hanno generato decine di cataloghi
razziali in contraddizione fra loro: quante e quali sarebbero le razze umane
nessuno è mai riuscito a dirlo. Oggi disponiamo di strumenti scientifici molto
sofisticati, e abbiamo visto che pensare l’umanità come suddivisa in razze non
ci aiuta a capire le nostre differenze, proprio perché nella stessa categoria
razziale finiscono invariabilmente persone i cui DNA sono molto, molto diversi
fra loro».
Battere
il razzismo, però, rimane comunque difficile. Difficile nonostante i progressi
scientifici, la tecnologia, la globalizzazione. Perché secondo lei?
«Per
tanti motivi. Uno è che il razzismo è facile: ci offre un nemico a cui dare la
colpa di ciò che non funziona nella nostra vita. È la ricetta di base del
populismo: proporre una soluzione semplice - è colpa degli altri - ai complessi
problemi della nostra convivenza sociale. Solo che queste ricette semplici non
funzionano mai».
Lei
ha sempre insistito sulla «pulizia del lessico» come metodo per sconfiggere il
razzismo.
«Mentre
sottolineiamo che il problema principale è nel concetto e non nella parola, ci
rendiamo però conto che anche le parole sono importanti. In effetti, lo sforzo
di lasciarci alle spalle gli stereotipi razzisti passa anche per una fase di
ripulitura del lessico, per l’eliminazione di espressioni che esprimano un
pregiudizio, esplicito o implicito. Se uno, parlando dell’umanità, dice razza e
intende razza, parla di qualcosa che non esiste. Se invece dice razza e intende
popolazione, meglio dire popolazione».
Utilizzare
un linguaggio non razzista significa anche partire dal rispetto dei singoli.
«Sicuramente,
perché non bisognerebbe mai offendere nessuno. Se a qualcuno dà fastidio che lo
si chiami terrone o vecchio o boscimane, bisogna cercare parole diverse. Senza
tuttavia dimenticare un punto».
Quale?
«Che
il problema è anche nella lingua, ma non solo lì: se poi non si passa a
comportamenti conseguenti, non cambia quasi nulla. Alla fine, conta come
parliamo, ma conta molto di più quello che facciamo».
In
che modo, a suo avviso, i mass media possono aiutare a sconfiggere la mentalità
razzista che pure, purtroppo, persiste?
«Sarebbe già qualcosa se evitassero di perpetuarla
con un uso spregiudicato del vocabolario. Un amico di Cosenza mi faceva notare
che quando un calabrese fa una rapina, i giornali sottolineano la sua origine,
mentre quando il professor Renato Dulbecco vinse nel 1975 il premio Nobel per
la Medicina nessuno si sarebbe sognato di titolare “Calabrese vince il Nobel”».
La scheda: chi è Guido Barbujani
Guido Barbujani, 67 anni, è professore ordinario di Genetica all’Università di Ferrara. Nella sua carriera accademica ha lavorato alla Stony Brook University (New York) e negli atenei di Padova e di Bologna. Dal 2011 al 2014 è stato presidente dell’Associazione Genetica Italiana.
Specializzato in genetica delle popolazioni, con Robert R. Sokal è stato fra i primi a sviluppare i metodi statistici per confrontare dati genetici e linguistici, e per ricostruire così la storia evolutiva delle popolazioni umane. I suoi studi hanno permesso di appurare che la maggior parte degli antenati degli attuali europei non si trovavano in Europa, ma nel vicino Oriente, fino all’epoca neolitica.
Tra i suoi libri più importanti va ricordato Sono razzista, ma sto cercando di smettere (Laterza, 2022²), scritto con Pietro Cheli.