Donna abusata in Ticino: nel rapporto pilota dell'Università di Zurigo è il «caso di studio»
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Nel rapporto pilota sugli abusi in àmbito ecclesiale che l’Università di Zurigo ha pubblicato lo scorso mese di settembre, la storia di don Luigi Cansani è uno dei «casi di studio» ricostruito grazie ai documenti conservati negli archivi diocesani. Il prete ticinese, nato a Cadro il 1. ottobre 1927, morì quasi 90enne, a Novazzano, il 26 marzo 2017. Musicista e compositore, scrisse centinaia di opere a tema sacro. Una sua composizione del 2000, l’Inno alla Madre del Signore, fu anche registrata negli studi radiofonici della RSI eseguita dai solisti diretti dal maestro Diego Fasolis. Queste e altre notizie si possono facilmente leggere nella pagina a lui dedicata su Wikipedia. Una pagina in cui, però, non si fa accenno alcuno alla vicenda giudiziaria che lo coinvolse.
La condanna a due anni
Docente in seminario e in un ginnasio ticinese, scrivono le ricercatrici zurighesi (che, in verità, nella loro ricostruzione indicano il sacerdote con le iniziali A.B, diverse quindi da quelle reali, ndr) , don Luigi Cansani «era anche insegnante privato di musica […] e attivo nel settore delle attività ricreative e dei campi estivi dell’Azione Cattolica giovanile. Commise i primi casi documentati di abuso sessuale durante le sue lezioni di musica, che teneva in locali isolati all’interno di strutture ecclesiastiche o nel proprio appartamento».
Quando venne scoperto e denunciato, il vescovo luganese dell’epoca, monsignor Giuseppe Martinoli, «emise una “proibizione assoluta di ricevere […] dei ragazzi per dare loro lezioni”». Il provvedimento diocesano, però, «ebbe scarso effetto - si legge ancora nel rapporto dell’Università di Zurigo - e il sacerdote abusò di altri minori nei cinque anni successivi. Solo allora fu avviato un procedimento penale sulla base della denuncia di un’altra ragazza. La giovane aveva confidato al magistrato dei minorenni “di essere stata vittima di certe sporche attenzioni di un sacerdote presso il quale sua madre la collocava perché prendesse lezioni”. Il processo giudiziario, facilitato dall’immediata ammissione di colpevolezza» di don Cansani, «si concluse con la sua condanna da parte del Tribunale penale a due anni di reclusione per ripetuti “atti di libidine” e “atti simili a congiunzione carnale” commessi nell’arco di cinque anni su sei minori di età compresa tra gli 8 e i 15 anni. L’esecuzione della pena fu poi sospesa e sostituita dal ricovero in un istituto psichiatrico, dopo che una perizia aveva appurato uno stato di scemata responsabilità».
Con questa sentenza, tuttavia, il caso ancora non era chiuso. Ciò che accadde in seguito, spiegano le storiche zurighesi, «rivela la dinamica tra potere ecclesiastico e politico, che si è potuta evidenziare anche in altri casi e che dovrebbe essere approfondita in futuri progetti di ricerca. […] Il vescovo si rivolse infatti all’allora direttore del Dipartimento di giustizia (il conservatore Arturo Lafranchi, ndr), con il fine di ottenere un trattamento preferenziale per il chierico, proponendo il suo trasferimento alla casa di cura della clinica psichiatrica privata di Viarnetto invece che all’ospedale psichiatrico cantonale di Mendrisio (ONC). La richiesta venne respinta, cosa che tuttavia non impedì al vescovo di presentare ulteriori istanze al Consiglio di Stato per accelerare la dimissione del sacerdote dall’ONC».
In ogni caso, «il sacerdote rimase fino alla sua morte all’interno del territorio diocesano. A quanto pare, negli anni successivi lavorò come collaboratore parrocchiale e gli fu persino conferita la facoltà di celebrare matrimoni prima di trascorrere la vecchiaia in una casa di riposo».
La Chiesa trasparente
Una delle cose che non è sfuggita alle ricercatrici dell’Università di Zurigo - e che più di altre colpiscono gli osservatori esterni, anche e soprattutto, alla luce delle scelte che caratterizzano la Chiesa trasparente di papa Francesco - è il modo in cui i responsabili ecclesiastici dell’epoca «cercarono di risolvere inizialmente la questione al proprio interno».
Non solo: il vescovo tentò pure più volte «di influenzare le autorità secolari per garantire le migliori condizioni possibili al colpevole in caso di condanna».
È del tutto chiaro che il Ticino degli anni Sessanta del Novecento non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello attuale. Ma sia i vertici diocesani del tempo, sia quelli che si sono succeduti alla guida della Chiesa luganese avrebbero certamente potuto fare di più. Andare oltre. Dire parole di verità. E non semplicemente dimenticare, confidando nel perdono divino e nell’oblio generale.
Nell’omelia pronunciata durante le esequie del sacerdote, a Novazzano, nella Chiesa dei santi Quirico e Giulitta, il 29 marzo 2017, il celebrante parlò di «un credente e di un pellegrino fragile e non privo di tormento», e lo definì «Il caro don Luigi», un uomo che «in mezzo alle fatiche e alle contraddizioni, di cui nessuna esistenza è mai totalmente priva in questo mondo, non ha mai cessato di tendere l’orecchio interiore al Signore della vita».
Ricordando, oltre che il chierico, anche il musicista, il celebrante aggiunse: «Siamo grati al Signore per aver tenuto vivo il senso della Sua magnificenza e della Sua benevolenza nel cuore del nostro caro don Luigi. Questi ha così potuto dare con la sua musica maggiore splendore, decoro e dignità alle celebrazioni liturgiche della Chiesa. Il suo contributo, insieme a quello di altri contemporanei, in una stagione da questo punto di vista particolarmente feconda e felice della nostra storia diocesana, non sarà dimenticato».