Ticino

È morto Giovanni Casella Piazza

Da sempre attivo negli ambiti dell’imprenditoria, della cultura, dell’arte e del giornalismo (fu direttore di Gazzetta Ticinese), il luganese d’origine negli ultimi tempi era stato tra i promotori del rilancio della storica ex fabbrica di cioccolato di Dangio, in valle di Blenio – Di seguito l'ultima intervista al CdT
© CdT/Chiara Zocchetti
Red. Online
12.06.2024 18:50

È morto oggi all’età di 75 anni, dopo breve malattia, Giovanni Casella Piazza. Da sempre attivo negli ambiti dell’imprenditoria, della cultura, dell’arte e del giornalismo (fu direttore di Gazzetta Ticinese), il luganese d’origine negli ultimi tempi era stato tra i promotori del rilancio della storica ex fabbrica di cioccolato di Dangio, in valle di Blenio. Grande appassionato di storia medievale, Casella qualche anno fa aveva pubblicato il volume «Certamen 1246» , un avvincente romanzo storico-psicologico frutto di un ventennale lavoro di ricerca sul XIII secolo. Un’opera incentrata sulle complesse dinamiche di quel periodo e sui suoi grandi e piccoli protagonisti. «Mi piace la Storia e di questa in modo particolare il Basso Medioevo», raccontava Casella in un’intervista al CdT pubblicata nel 2020, in occasione dell’uscita del suo libro. «Ho studiato con interesse sia le vicende locali, sia quelle del Sacro Romano Impero. Ha significato documentarmi, consultare archivi, e quindi creare collegamenti tra fatti locali e situazioni di più ampio raggio, nei quali inserire i personaggi». I funerali avranno luogo sabato 15 giugno alle 11.00 a Lugano.  

Di seguito, l'ultima intervista concessa al CdT, in data 24 febbraio 2020, firmata da Matteo Airaghi.

«Lo spirito del Duecento tra locale e universale»

Avvincente romanzo storico-psicologico, «Certamen 1246» è frutto di un ventennale lavoro di ricerca sul XIII secolo, sulle complesse dinamiche di quel periodo e sui suoi grandi e piccoli protagonisti. Ne abbiamo parlato con l'autore: il giornalista, scrittore, operatore culturale e appassionato cultore di vicende medievali Giovanni Casella Piazza.

Signor Casella Piazza, un grande storico ticinese soleva ripetere che «troppo spesso si trascura il Duecento»: al contrario Lei pone al centro della sua narrazione proprio le complesse vicende del XIII secolo nel nostro territorio. Come mai questa scelta?
«È un’epoca, la federiciana, che precorre di un paio di secoli la rinascita delle arti e delle scienze e per la prima volta attua la divisione tra la sfera laica e quella ecclesiastica dal punto di vista dell’efficienza dello Stato. Ciò è avvenuto in Sicilia (l’Italia meridionale) e in Inghilterra, due regni di matrice normanna, che all’epoca erano i più progrediti del continente. Situo le vicende narrate nel romanzo nell’arco temporale che va dal 1226 al 1246, un ventennio connotato dal governo di Federico II di Hohenstaufen, che prima di essere imperatore era re di Sicilia e come tale pose alcune pietre miliari sullo sviluppo della civiltà europea: si pensi ad esempio alle costituzioni di Melfi, avanguardistica concezione di Stato moderno e la scuola poetica siciliana, primo fenomeno in Italia di poesia volgare».

Questo poderoso romanzo è frutto di un ventennale e certosino lavoro di ricerca: quali sono le principali difficoltà che ha incontrato nella sua ricostruzione e nel dipanare una trama coerente con le vicende storiche su cui si innesta?
«Mi piace la Storia e di questa in modo particolare il Basso Medioevo, per cui ho studiato con interesse sia le vicende locali - Como e la Lombardia d’allora o Regnum italicum di cui il Ticino faceva parte - sia quelle del Sacro Romano Impero, a quel tempo semplicemente Imperium Romanorum. Ha significato documentarmi, consultare archivi (ad esempio quelli di Como e Milano), e quindi creare collegamenti tra fatti locali e situazioni di più ampio raggio, nei quali inserire i personaggi. Tra questi due in particolare: il monaco poi abate comasco Ariberto da Cassago e l’imperatore Federico. La difficoltà maggiore l’ho riscontrata sul piano letterario, siccome mi è toccato combinare tre tracce temporali: il periodo »trapassato« 1226-1246 dell’attività di Ariberto in favore di Federico II; quello »passato«, ossia dall’ottobre 1268 al giugno 1269, corrispondente al soggiorno presso Ariberto di Zirìolo, un giovane inspiegabilmente venuto dal Friuli per volontà del patriarca di Aquileia; e il tempo »presente« del luglio 1269, quando il notaio Giuliano Aielli giunto a Como per riaccompagnare a casa Zirìolo, non lo trova e nessuno sa dire dove sia finito. Ecco, combinare in modo scorrevole e comprensibile situazioni riguardanti periodi, luoghi, protagonisti e relativi punti di vista tra loro diversi, mi ha impegnato parecchio. In sostanza ho riscritto il romanzo almeno otto volte, con beninteso lunghe pause, anche di qualche anno, tra una riscrittura e l’altra. Il vantaggio è stato di permettermi nel contempo una maturazione sul piano concettuale».

«Certamen 1246» si caratterizza anche per un particolare doppio registro linguistico su cui si sviluppa la trama: ci vuole illustrare questa originale formula narrativa?
«Appunto per l’esigenza di combinare situazioni tanto differenti tra loro ho lavorato sui tempi verbali e ho usato lo stratagemma del ritrovamento del diario di Zirìolo, che mi ha permesso di far parlare il ragazzo scomparso e venire così a conoscenza delle sue esperienze con Ariberto o dei suoi tentativi di conquistare il cuore di Veronica, una giovane di Como di cui si era follemente innamorato».

Se i protagonisti del libro sono i vari Ariberto, Zirìolo e Veronica, è chiaro che sull’intera vicenda campeggia la figura di Federico II di Hohenstaufen: qual è il suo personale giudizio sulla figura frequentatissima ma volte storicamente controversa dello «Stupor Mundi»?
«È un personaggio che non lascia indifferenti, amato e nel contempo odiato. Parlo al presente perché tuttora il giudizio su di lui non è univoco. Ci sono storici, ad esempio il Kantorowicz, che ne tessono le lodi, altri, come Abulafia, che lo condannano. Il giudizio popolare nel Meridione italiano ne fa un eroe. In Germania è più un italiano che non un tedesco, seppur figlio di Enrico VI e nipote del Barbarossa. Ma la madre Costanza d’Altavilla, regina siculo-normanna di Sicilia, gli ha dato l’imprinting. Tra i due giudizi estremi - Stupor Mundi o Anticristo - si dimena Ariberto, che in gioventù lo ha servito come valletto e per tutta la vita gli è stato fedele votandosi a lui completamente, e da vecchio (anni 1268-69) cade in profonda crisi esistenziale. L’ammirazione del comasco per l’imperatore è frutto di due esperienze: lo straordinario mondo siciliano conosciuto quand’era stato valletto e l’ideale di impero, ossia di stato unitario dell’Occidente cristiano, assorbito ascoltando i discorsi dei dotti di corte, spronati dall’imperatore, e mai però realizzato.

Lei ci racconta una vicenda che esplora abilmente aspetti molto interessanti e poco noti del nostro passato locale: allargando il discorso ad uno sguardo più ampio, quanto e in che modo le vicende dell’Europa di allora sono paragonabili a quelle della nostra contemporaneità?
»L’ideale irrealizzato di Impero, cui Ariberto aveva aderito, consisteva nel dare risposta a una necessità naturale dei popoli di pace e giustizia. Era dunque immaginato come organismo consensuale di comune utilità, soprattutto finalizzato alla pace, bene maggiormente anelato dalle genti d’ogni epoca e Paese. Federico aspirava alla pace, tanto è che quando fu costretto alla crociata contro i Saraceni, preferì sottoscrivere con il loro sultano un accordo anziché affrontarli sul campo di battaglia. Ciò dovrebbe essere, ai nostri giorni, lo scopo di un’Europa federale. Quel che si sta realizzando con l’UE è distante da questo proposito poiché l’aspetto regolatore supera di molto quello d’utilità, per cui si assiste alla repulsione popolare dell’istituzione oltremodo centralizzatrice e burocratica, tendente in modo controproducente a prevalere sulle facoltà decisionali e amministrative dei territori a essa appartenenti«.