È morto Giovanni Casella Piazza
È morto oggi all’età di 75 anni, dopo breve malattia, Giovanni Casella Piazza. Da sempre attivo negli ambiti dell’imprenditoria, della cultura, dell’arte e del giornalismo (fu direttore di Gazzetta Ticinese), il luganese d’origine negli ultimi tempi era stato tra i promotori del rilancio della storica ex fabbrica di cioccolato di Dangio, in valle di Blenio. Grande appassionato di storia medievale, Casella qualche anno fa aveva pubblicato il volume «Certamen 1246» , un avvincente romanzo storico-psicologico frutto di un ventennale lavoro di ricerca sul XIII secolo. Un’opera incentrata sulle complesse dinamiche di quel periodo e sui suoi grandi e piccoli protagonisti. «Mi piace la Storia e di questa in modo particolare il Basso Medioevo», raccontava Casella in un’intervista al CdT pubblicata nel 2020, in occasione dell’uscita del suo libro. «Ho studiato con interesse sia le vicende locali, sia quelle del Sacro Romano Impero. Ha significato documentarmi, consultare archivi, e quindi creare collegamenti tra fatti locali e situazioni di più ampio raggio, nei quali inserire i personaggi». I funerali avranno luogo sabato 15 giugno alle 11.00 a Lugano.
Di seguito, l'ultima intervista concessa al CdT, in data 24 febbraio 2020, firmata da Matteo Airaghi.
«Lo spirito del Duecento tra locale e universale»
Avvincente romanzo storico-psicologico, «Certamen 1246» è frutto di un ventennale lavoro di ricerca sul XIII secolo, sulle complesse dinamiche di quel periodo e sui suoi grandi e piccoli protagonisti. Ne abbiamo parlato con l'autore: il giornalista, scrittore, operatore culturale e appassionato cultore di vicende medievali Giovanni Casella Piazza.
Signor Casella Piazza, un grande storico
ticinese soleva ripetere che «troppo spesso si trascura il Duecento»:
al contrario Lei pone al centro della sua narrazione proprio le complesse
vicende del XIII secolo nel nostro territorio. Come mai questa scelta?
«È un’epoca, la federiciana, che precorre
di un paio di secoli la rinascita delle arti e delle scienze e per la prima
volta attua la divisione tra la sfera laica e quella ecclesiastica dal punto di
vista dell’efficienza dello Stato. Ciò è avvenuto in Sicilia (l’Italia meridionale)
e in Inghilterra, due regni di matrice normanna, che all’epoca erano i più
progrediti del continente. Situo le vicende narrate nel romanzo nell’arco
temporale che va dal 1226 al 1246, un ventennio connotato dal governo di
Federico II di Hohenstaufen, che prima di essere imperatore era re di Sicilia e
come tale pose alcune pietre miliari sullo sviluppo della civiltà europea: si
pensi ad esempio alle costituzioni di Melfi, avanguardistica concezione di
Stato moderno e la scuola poetica siciliana, primo fenomeno in Italia di poesia
volgare».
Questo poderoso romanzo
è frutto di un ventennale e certosino lavoro di ricerca: quali sono le
principali difficoltà che ha incontrato nella sua ricostruzione e nel dipanare
una trama coerente con le vicende storiche su cui si innesta?
«Mi piace la Storia
e di questa in modo particolare il Basso Medioevo, per cui ho studiato con
interesse sia le vicende locali - Como e la Lombardia d’allora o Regnum
italicum di cui il Ticino faceva parte - sia quelle del Sacro Romano Impero, a
quel tempo semplicemente Imperium Romanorum. Ha significato documentarmi,
consultare archivi (ad esempio quelli di Como e Milano), e quindi creare
collegamenti tra fatti locali e situazioni di più ampio raggio, nei quali
inserire i personaggi. Tra questi due in particolare: il monaco poi abate
comasco Ariberto da Cassago e l’imperatore Federico. La difficoltà maggiore
l’ho riscontrata sul piano letterario, siccome mi è toccato combinare tre
tracce temporali: il periodo »trapassato« 1226-1246 dell’attività di
Ariberto in favore di Federico II; quello »passato«, ossia
dall’ottobre 1268 al giugno 1269, corrispondente al soggiorno presso Ariberto
di Zirìolo, un giovane inspiegabilmente venuto dal Friuli per volontà del
patriarca di Aquileia; e il tempo »presente« del luglio 1269, quando
il notaio Giuliano Aielli giunto a Como per riaccompagnare a casa Zirìolo, non
lo trova e nessuno sa dire dove sia finito. Ecco, combinare in modo scorrevole
e comprensibile situazioni riguardanti periodi, luoghi, protagonisti e relativi
punti di vista tra loro diversi, mi ha impegnato parecchio. In sostanza ho
riscritto il romanzo almeno otto volte, con beninteso lunghe pause, anche di
qualche anno, tra una riscrittura e l’altra. Il vantaggio è stato di
permettermi nel contempo una maturazione sul piano concettuale».
«Certamen
1246» si caratterizza anche per un particolare doppio registro linguistico
su cui si sviluppa la trama: ci vuole illustrare questa originale formula
narrativa?
«Appunto per l’esigenza
di combinare situazioni tanto differenti tra loro ho lavorato sui tempi verbali
e ho usato lo stratagemma del ritrovamento del diario di Zirìolo, che mi ha
permesso di far parlare il ragazzo scomparso e venire così a conoscenza delle
sue esperienze con Ariberto o dei suoi tentativi di conquistare il cuore di
Veronica, una giovane di Como di cui si era follemente innamorato».
Se i protagonisti del
libro sono i vari Ariberto, Zirìolo e Veronica, è chiaro che sull’intera
vicenda campeggia la figura di Federico II di Hohenstaufen: qual è il suo
personale giudizio sulla figura frequentatissima ma volte storicamente
controversa dello «Stupor Mundi»?
«È un personaggio
che non lascia indifferenti, amato e nel contempo odiato. Parlo al presente
perché tuttora il giudizio su di lui non è univoco. Ci sono storici, ad esempio
il Kantorowicz, che ne tessono le lodi, altri, come Abulafia, che lo
condannano. Il giudizio popolare nel Meridione italiano ne fa un eroe. In
Germania è più un italiano che non un tedesco, seppur figlio di Enrico VI e
nipote del Barbarossa. Ma la madre Costanza d’Altavilla, regina siculo-normanna
di Sicilia, gli ha dato l’imprinting. Tra i due giudizi estremi - Stupor Mundi
o Anticristo - si dimena Ariberto, che in gioventù lo ha servito come valletto
e per tutta la vita gli è stato fedele votandosi a lui completamente, e da
vecchio (anni 1268-69) cade in profonda crisi esistenziale. L’ammirazione del
comasco per l’imperatore è frutto di due esperienze: lo straordinario mondo
siciliano conosciuto quand’era stato valletto e l’ideale di impero, ossia di
stato unitario dell’Occidente cristiano, assorbito ascoltando i discorsi dei
dotti di corte, spronati dall’imperatore, e mai però realizzato.
Lei ci racconta una
vicenda che esplora abilmente aspetti molto interessanti e poco noti del nostro
passato locale: allargando il discorso ad uno sguardo più ampio, quanto e in
che modo le vicende dell’Europa di allora sono paragonabili a quelle della
nostra contemporaneità?
»L’ideale irrealizzato di Impero, cui Ariberto aveva aderito,
consisteva nel dare risposta a una necessità naturale dei popoli di pace e
giustizia. Era dunque immaginato come organismo consensuale di comune utilità,
soprattutto finalizzato alla pace, bene maggiormente anelato dalle genti d’ogni
epoca e Paese. Federico aspirava alla pace, tanto è che quando fu costretto
alla crociata contro i Saraceni, preferì sottoscrivere con il loro sultano un
accordo anziché affrontarli sul campo di battaglia. Ciò dovrebbe essere, ai
nostri giorni, lo scopo di un’Europa federale. Quel che si sta realizzando con
l’UE è distante da questo proposito poiché l’aspetto regolatore supera di molto
quello d’utilità, per cui si assiste alla repulsione popolare dell’istituzione
oltremodo centralizzatrice e burocratica, tendente in modo controproducente a
prevalere sulle facoltà decisionali e amministrative dei territori a essa
appartenenti«.