È un tipico piatto ticinese, ma viene da lontano

L'USI riflette sul risotto con la luganighetta, partendo dall’origine della parola "zafferano": "È il risultato di un lungo viaggio che racconta quanto è complessa la nostra identità"
Giuliano Gasperi
20.09.2018 06:00

LUGANO - Vi è mai capitato di assaggiare un piatto in versione scomposta? Nulla di sconvolgente: si tratta di preparare e presentare i suoi ingredienti in modo separato, valorizzandoli senza stravolgere il gusto complessivo. Proveremo a fare lo stesso con un classico della cucina ticinese, il risotto allo zafferano con l'immancabile luganighetta. Non ai fornelli però: su queste colonne. A darci lo spunto è l'Università della Svizzera Italiana, che propone alcune riflessioni sulla gastronomia nell'ambito di Lugano Città del Gusto. Uno dei capitoli dell'opuscolo che potete trovare allo stand dell'USI al Padiglione Conza compie un viaggio nella storia partendo dalla parola «zafferano», «che non è solo l'elemento determinante del risotto nella cucina tipica lombardo-ticinese, ma è anche custode di parecchie tracce della nostra identità – leggiamo sul libricino – Tracce che superano i confini e attraversano lingue, culture e religioni». Partiamo dall'antica Grecia, teatro di alcuni affreschi che raffigurano una dea intenta a raccogliere il Crocus sativus, la pianta da cui viene ricavato lo zafferano. Dei suoi tre stimmi se ne può utilizzare solo uno, che va colto a mano e al mattino, quando il fiore è aperto. Per 1 chilo di prodotto, pensate, servono 150 mila fiori. La storia della cucina suggerisce che ne vale la pena. Grazie ai fenici – racconta sempre l'università – questo nobile fiore si diffuse in tutti gli angoli del Mediterraneo: dai tintori di Tiro ai medici egiziani, dai sacerdoti greci ai commercianti arabi (tenetelo un attimo da parte il mondo arabo). La coltivazione del Crocus passò anche dall'Asia, dove lo zafferano veniva utilizzato tra le varie cose per tingere le vesti dei monaci buddisti e i tappeti. In Europa invece il suo successo fu stroncato dalle invasioni barbariche, ma dopo qualche tempo tornò, probabilmente grazie agli arabi. Lo zafferano segue infatti le tracce delle loro conquiste, finendo nel piatto simbolo della Spagna: la gialla paella. L'annotazione cromatica non è casuale: la parola «zafferano» deriva infatti dall'arabo za'faran, che significa «giallo». «Il giallo del 'nostro' risotto – conclude l'USI – è dunque il risultato di un lungo viaggio fatto di scambi e commistioni che rende difficile distinguere un 'noi' da un 'loro', raccontando la sfaccettatura complessa della nostra identità». Per alcuni questa tesi avrà un retrogusto poco gradevole, per altri sarà un'esplosione di sapori. Lasciando ad ognuno il proprio giudizio, seguiamo il ragionamento dell'USI e continuiamo con la «scomposizione» del nostro risotto.

Il riso in sé meriterebbe un articolo a parte, ma dobbiamo riassumere: secondo diverse ricostruzioni storiche, la coltivazione delle principali varietà di riso cominciò in estremo Oriente almeno 5 mila anni prima di Cristo e solo dopo qualche millennio si diffuse in Occidente. Prima in Mesopotamia, dove fu coltivato nel quarto secolo a. C., dopodiché in Europa grazie ad Alessandro Magno. E la luganighetta? Ci sono varie teorie. Una è dello storico romano Marco Terenzio Varrone, che ne attribuisce la paternità, nei primi secoli dopo Cristo, agli abitanti dell'odierna Basilicata. «Chiamano lucanica – scrive il Varrone – una carne tritata insaccata in un budello, perché i nostri soldati hanno appreso il modo di prepararla dai lucani». Per altri bisogna ringraziare la regina longobarda Teodolinda, che avrebbe avuto l'intuizione gastronomica passando poi la ricetta agli abitanti di Monza. Non ci dilunghiamo su altre tesi e rivendicazioni regionali. In terra elvetica, secondo l'Associazione patrimonio culinario svizzero, la prima menzione di una luganighetta risale al del 1653: in un registro conservato all'Archivio del Patriziato della Città di Lugano figura una «luganighetta buona e fina». Occorre però attendere il secolo successivo per veder diffondersi il consumo di salsicce in Ticino: riferendosi al Locarnese e alla Leventina, Stefano Franscini scrisse: «Si salano le carni, si fanno salsicce, e si apprestano uno o due o più fiate la settimana al desinare od alla cena, d'ordinario con pomi di terra».