Era una Lugano viva e ruggente che adesso non esiste quasi più

Lugano nel suo piccolo ha avuto la sua summer of love. Un periodo ruggente. Cinque, sei o sette anni in cui di notte la città dava, culturalmente parlando, il meglio di sé; in cui i giovani avevano l’imbarazzo della scelta. Potevano iniziare con un concerto al Foce, poi passare qualche ora al Morel e infine chiudere in bellezza al Living Room. O trascorrere una serata al Tra, allo Spazio 1929 o al Turba, poi andare all’Oops, al Milk e chiudere al Casotto o all’ex Macello. O ancora scegliere tra un concerto organizzato in spazi estemporanei (il Domani o l’Artelier) e uno alla Sonnenstube, o magari aver la fortuna di essere invitati a una delle tante feste private organizzate negli scantinati di periferia, utilizzati dalle band per le prove. E volendo si poteva prendere l’auto e andare allo Zion di Morbio o al Murrayfield a Chiasso, al Folk di Bellinzona (o al Peter Pan e al Paso, anche se magari il blues non era più di moda) o al Canetti di Locarno.
Una Lugano alternativa, spesso illegale (nel senso che non si preoccupava di chiedere permessi e informare la polizia), ma viva. «I giovani luganesi – ci spiega una persona che ha vissuto quel mondo da dentro – hanno sempre considerato Losanna come la città di riferimento da questo punto di vista in Svizzera. Losanna era probabilmente la città migliore in cui vivere se si aveva meno di 30 o 35 anni. Più divertente e stimolante perfino di Zurigo». Ma poi anche Lugano, come una emerocallide, è sbocciata. «C’è stato un momento in cui a Losanna o a Zurigo si è iniziato a parlare di quel che succedeva di notte a Lugano e dei suoi giovani artisti che si stavano facendo strada». «Io sono tornato a vivere a Lugano da Zurigo – spiega un altro giovane – anche perché ho visto il fiorire di queste realtà, che non c’erano quando sono partito per l’università».
Sbocciata come un’emerocallide, che fiorisce per un solo giorno e poi torna ad afflosciarsi. Una piccola summer of love accaduta non negli anni Sessanta ma all’improvviso (e allo stesso tempo progressivamente) tra il 2010 e il 2020. Spenta dalla burocrazia, dalla concorrenza, dalla politica o dal semplice fatto che chi quei posti li ha inventati, e gestiti, ha raggiunto o superato gli «anta», e alle notti brave, dopo aver magari messo su famiglia, ha iniziato a preferire divano e TV, o una tranquilla cena al ristorante. Due anni di pandemia hanno fatto il resto e oggi quella Lugano praticamente non c’è più. La lista è lunga. Living Room, Turba, Morel, Casotto, Spazio 1929, Milk e Molino sono spariti. Il Domani organizza ormai pochissimi eventi l’anno e lo stesso vale per l’Artelier. E a ben guardare anche fuori da Lugano sono stati chiusi lo Zion, il Canetti, il «Pit» e il Pasinetti. Logico che i giovani si lamentino della mancanza di spazi. Giusto o sbagliato che sia, è chiaro che una parte di giovani si ritrovi la sera a far festa al parco Saroli se l’alternativa è la discoteca, con i suoi costi, la sua musica e il suo codice di abbigliamento.
«Poco o nulla, poi il boom»
Negli anni Novanta a Lugano per i giovani c’era poco o nulla. Una delle massime aspirazioni era fare su e giù con i roller per tutta la sera sul lungolago. È anche per questo che gli autogestiti, nel 1996, occuparono i Molini Bernasconi. All’inizio del nuovo millennio le cose cambiarono. Un po’ in tutto l’Occidente Internet aveva favorito la nascita di due movimenti culturali interconnessi: quello indie (che sta per indipendente) e quello lo-fi (che sta per bassa fedeltà). Movimenti che offrivano concetti importanti: Internet abbatte le frontiere e dunque se sei un artista non importa dove abiti. Non devi vivere per forza a Los Angeles o a Londra per avere un pubblico.
Non devi avere grosse case di produzione alle spalle. Non devi necessariamente fare quel che la massa chiede. Puoi proporre contenuti di nicchia e, anziché limitarti alla tua cittadina, rivolgerti al resto del mondo. E puoi anche (questo il concetto del lo-fi) proporre un prodotto imperfetto. L’importante è che sia sincero e unico. Su queste basi iniziò a svilupparsi anche la scena luganese. Gli artisti presero coraggio e iniziarono a collaborare, e in città aprirono contemporaneamente locali e realtà che diffusero questi concetti al pubblico. Che diedero nuovo coraggio agli artisti e che iniziarono a portarne di nuovi dal resto della Svizzera, dell’Europa e del mondo. Si creò dunque una rete e Lugano finì sulle mappe della scena culturale alternativa. Aiutò anche il Dicastero giovani, con l’apertura del Foce e con il LongLake. E gli artisti ticinesi riuscirono anche grazie a questi contatti ad uscire dal Ticino. Esagerazione? No. Se parliamo di musica c’è stato un periodo, tra il 2010 e il 2015, in cui in quasi tutti i grandi festival svizzeri c’era una formazione ticinese, quasi sempre di Lugano. In cui c’erano tre, quattro o perfino cinque band di Lugano in giro per l’Europa, in tour, nello stesso momento.
Musica e tolleranza
La Lugano alternativa ha subito come detto un duro colpo negli ultimi anni, ma non è scomparsa del tutto. «Però – ci spiega un avvocato che tutela gli interessi di alcuni locali in città – l’impressione è che l’atteggiamento delle autorità non sia cambiato. Lugano è una città in cui si deve chiedere l’autorizzazione per qualsiasi tipo di evento, anche quelli che sono già nella natura degli esercizi pubblici. In pratica c’è in atto un sistema di controllo del territorio che lede la libertà economica e imprenditoriale. L’esempio più lampante è quello del dj set. È assurdo che sia necessario chiedere l’ok della polizia per far scegliere la musica a una persona anziché al proprio computer. Trovo che il calo o addirittura la sparizione di esercizi pubblici che avevano una proposta musicale è dovuta a questo approccio, che ritengo sbagliato e dannoso per i nostri giovani».
«Pacche sulle spalle e basta»
«Dalla politica e dal Municipio – ci spiega il coordinatore di uno dei locali oggi scomparsi – abbiamo ricevuto pacche sulle spalle e poco più. Ci dicevano ‘bravi, bella iniziativa, buona idea’, ma poi era proprio l’autorità a metterci i bastoni tra le ruote riempiendoci di burocrazia, non dandoci i permessi o addirittura copiando le nostre idee».
«Tanti amici se ne stanno andando»
Ma perché questi luoghi non ci sono più? Cosa ha spinto chi li ha inventati e gestiti per anni a gettare la spugna? Damiano «Dug» Merzari ci racconta l’esperienza del Casotto, durata sei anni e terminata durante la pandemia, che ha dato il colpo di grazia. «Al Casotto iniziammo quasi per caso, organizzando feste tra amici. E capimmo subito che era ciò che volevamo fare». La realtà ha così subito preso vita e dalle feste si è passati anche ai concerti. «Tutto era basato sul volontariato. Non si pensava di certo a far soldi, ma a regalare qualcosa alle persone che frequentavano il locale». Presentare cose nuove, portare a Lugano artisti interessanti, permettere ai giovani luganesi di avere un luogo in cui divertirsi e socializzare. Ma anche, appunto, portare cultura alternativa.
«Cosa restiamo a fare?»
«A un tratto – spiega Merzari – sono nate diverse altre realtà in città. Penso soprattutto al Morel. Realtà che, come la nostra, sono oggi scomparse. Ed è impressionante mettere in fila tutti quei posti che non ci sono più. È triste». Sopra scrivevamo di chi in Ticino è tornato durante il boom della cultura alternativa. Ma ora, conferma Merzari, succede il contrario. «Molti amici e molte persone che conosco stanno lasciando Lugano, o stanno pensando di andarsene». Trasferirsi a Zurigo, a Berlino, a Barcellona o in altre città. Mi dicono ‘Cosa ci resto a fare a Lugano? Cosa è rimasto per me in questa città?’». Ma come mai, appunto, questi posti non ci sono più? «Nel nostro caso c’è stata appunto un po’ la pandemia, un po’ il fatto di avere ormai una certa età (anche se con alcuni giovani avevamo cominciato un lavoro per poi continuare) ma hanno pesato anche i controlli di polizia. Il Casotto era in una posizione in cui fondamentalmente non dava fastidio a nessuno, eppure c’erano sempre controlli, pressioni e mai la volontà di trattarlo come un luogo di cultura, invece che come locale pubblico. Dunque poi, facendo pressione sul proprietario, ci hanno fatto chiudere definitivamente».
Realtà fraintese
Realtà forse mai comprese dalle autorità, probabilmente perfino fraintese. «Dopo la chiusura ho scoperto – ci spiega Merzari – che la polizia pensava ci fosse un giro di droga pesante al Casotto. E perfino un giro di prostituzione. O perlomeno aveva ricevuto segnalazioni in questo senso. È una cosa che mi fa sorridere. Avevano davvero poco in chiaro la reale situazione».
«Serve un po’ di tolleranza»
Merzari, ma come lui tante altre persone con cui abbiamo parlato, si dice convinto che per salvaguardare attività di questo tipo le autorità dovrebbe avere la capacità di tollerare la «zona grigia» in cui si muovono queste realtà. «Credo che il problema – ci spiega – fosse il fatto che politica e polizia ci paragonassero in qualche modo ai locali notturni, pretendendo il rispetto delle stesse regole. Chiedere il permesso alla polizia (e attendere l’autorizzazione) per organizzare concerti o perfino un dj set, avere un gerente per il baretto. Nelle altre città non funziona così. C’è più tolleranza. Viene compresa l’importanza di questi luoghi e del bene prezioso che è la spontaneità. L’urgenza di un luogo. Perdendo la spontaneità di queste realtà tutto si trasforma in qualcosa di noioso».