Processo

Fallimento Airlight di Biasca: condannato solo uno dei cinque imputati

Per il direttore della SA, 13 mesi sospesi per due anni per amministrazione infedele aggravata e diminuzione dell'attivo a danno dei creditori — Assolti gli altri quattro vertici
© CdT/Archivio
Davide Rotondo
Davide Rotondo
07.04.2023 13:30

«Era da tutti considerato una sorta di Deus ex machina della società. Senza di lui la Airlight sarebbe davvero colata a picco». Secondo la Corte delle Assise criminali presieduta dal giudice Siro Quadri c’è stato un solo responsabile nella vicenda che ha riguardato il fallimento della Airlight di Biasca. Durante la sentenza pronunciata oggi, tra i cinque imputati finiti alla sbarra, è stato dunque condannato unicamente il direttore nonché inventore della tecnologia utilizzata dalla società (difeso dall’avvocato Pierluigi Pasi) poiché, sebbene fosse a conoscenza delle difficoltà finanziarie, l’ex direttore era riuscito a convincere i vertici societari a condonare un debito che aveva nei confronti dell’azienda di circa 200.000 franchi. Aspetto che secondo la Corte si configura come reato di amministrazione infedele e diminuzione dell’attivo a danno dei creditori. Per questi capi d’accusa la Corte si è quindi pronunciata per una pena di 13 mesi sospesi condizionalmente per due anni. A suo carico il procuratore pubblico Daniele Galliano aveva invece chiesto una pena di 14 mesi, anche in questo caso sospesa.

Assolti i soci

Assolto dunque l’amministratore unico della SA, difeso dall’avvocato Stelio Pesciallo, che rischiava invece la pena più pesante: tre anni di detenzione, di cui 6 mesi da scontare. Prosciolti anche gli altri tre imputati, patrocinati dai legali Emanuele Verda, Mario Postizzi e Paolo Bernasconi che verranno inoltre indennizzati. Sono state infatti parzialmente accolte le quattro istanze e riceveranno dunque diverse decine di migliaia di franchi. «L’azienda - ha spiegato la Corte durante la lettura della sentenza - ha preso decisioni che si sono rivelate sbagliate, ma i Tribunali non possono ragionare con il senno di poi». Secondo invece il pp Galliano i cinque avevano «pensato solo a sé stessi attingendo da un pozzo senza fondo», riscontando nell’operato dei soci diverse operazioni finanziarie sospette e strani trasferimenti dalla Airlight a società estere che, sempre secondo il Ministero pubblico, sarebbero stati ricondotte ad alcuni dirigenti della società.

«Non si sono arricchiti»

La società intendeva lanciare sul mercato una tecnologia solare, invece è finita in bancarotta per mancanza liquidità lasciando un buco debitorio di 25 milioni di franchi nel 2016. Stava infatti sperimentando un sistema di produzione di energia solare in Ticino e in Marocco. Serviva però solo un ultimo brevetto per entrare nel mercato e commercializzare la tecnologia. Il giorno in cui gli esperti sono venuti a certificare il prodotto, l’impianto non è stato in grado di raggiungere i 500 gradi necessari per passare il test, arrivando solo a 480 a causa della presenza di nuvole, avevano spiegato gli imputati in aula. Molto, a detta degli imputati, era l’interesse intorno al progetto tanto da entrare «in contatto perfino con colossi internazionali come IBM. Eravamo pronti a spiccare il volo ma abbiamo fallito a un centimetro dal successo». In questo senso Quadri ha sottolineato che, sebbene «il risultato sia stato insoddisfacente, ciò non significa che tutto debba sfociare in reati penali considerando proprio il principio del rischio imprenditoriale riconosciuto dal legislatore e dalla giurisprudenza», riscontrando poi atti legalmente giusti «come le ripetute iniezioni di capitali, inoltre alcuni imputati hanno lavorato gratuitamente e non si sono arricchiti a dismisura». Importante infatti per la valutazione del dolo, «è il fatto che alcuni di essi hanno messo a disposizione parecchi soldi e infine li hanno persi tutti in un settore notoriamente a rischio».

Al netto di eventuali ricorsi, che l’accusa e l’avvocato Pasi stanno valutando, si chiude dunque un processo che ha atteso anni prima di approdare in aula. Aspetto, quest’ultimo, sottolineato più volte anche dalle difese (battutesi per un’assoluzione su tutta la linea), che avevano definito l’inchiesta «uno zombie che per anni ha vagato nei corridoi del Ministero pubblico e l’atto d’accusa un ‘monstrum’ pieno zeppo di errori». L’incarto finito tra le mani del procuratore pubblico Galliano era stato ereditato dalla procuratrice pubblica Fiorenza Bergomi.