Fondo malese 1MDB: sette anni a Tarek Obaid e sei a Patrick Mahony
(Aggiornato) Atto d’accusa quasi integralmente confermato e condanne alla reclusione, rispettivamente di 7 e 6 anni, per i due imputati negli addentellati svizzeri del caso 1Mdb, il fondo sovrano malese letteralmente depredato dall’agire anche dei due uomini d’affari a processo presso il Tribunale penale federale di Bellinzona. Si tratta di Tarek Obaid e Patrick Mahony, cittadino saudita e svizzero il primo, britannico e svizzero il secondo. La corte ha anche ordinato la restituzione del maltolto alle parti lese - principalmente il fondo 1MDB, ma anche altri soggetti - pari a oltre 1,8 miliardi dollari con l’aggiunta di un interesse moratorio del 5% a partire dal settembre 2009 sul primo miliardo e dello stesso importo per quanto riguarda il resto, ma a partire dal settembre 2010 e poi a scalare fino a ottobre 2011 per le altre due tranche. Sono state anche disposte pretese compensatorie a favore della Confederazione per un totale di 462 milioni di franchi, oltre alle spese di giustizia. Ordinato il sequestro di attivi finanziari e immobili - in Svizzera e all’estero - riconducibili ai due per un totale di circa 192 milioni di franchi.
Il Ministero pubblico della Confederazione, rappresentato dalla procuratrice Alice de Chambrier aveva chiesto lo scorso aprile dieci e nove anni di reclusione; il sequestro dei beni immobiliari e finanziaria individuati e provento di reato; il risarcimento delle parti lese e le spese di giustizia. Le accuse, lo ricordiamo, erano di truffa per mestiere, in via subordinata amministrazione infedele e riciclaggio di denaro aggravato. Il caso 1Mdb ebbe una rilevanza internazionale perché coinvolgeva, tra gli altri, l’allora premier della Malesia Najib Razak e locale perché lo scandalo finanziario colpì - affondandola - anche la BSI attraverso la sede di allora a Singapore.
La Corte penale ha ritenuto che i due imputati, agendo di concerto con persone attive in seno al fondo sovrano malese 1Malaysia Development Berhard (1MDB), abbiano messo in piedi una truffa che ha permesso loro di percepire un miliardo di dollari a danno del fondo sulla base di un falso partenariato di joint-venture tra Petrosaudi e 1MDB. La Corte ha altresì constatato che dopo la conversione della joint-venture in prestito islamico, gli imputati, nell’ambito di atti di amministrazione infedele a danno di 1MDB, hanno prestato assistenza alla distrazione di altre due tranche supplementari di rispettivamente 500 e 330 milioni di dollari, legittimandole sulla base di opportunità d’investimento fittizie. Infine, hanno riciclato l’insieme delle somme distratte. Gli imputati - secondo la Corte - hanno agito di concerto con Jho Low ancora latitante – persona di fiducia dell’allora premier malese Najib Razak e consulente ufficioso in seno a 1MDB – e con il supporto di due membri del management di 1MDB e di Najib Razak stesso.
Truffa e riciclaggio
Gli imputati - si legge nella nota del Tribunale penale federale - si sono adoperati per far credere ai membri CdA di 1MDB che Petrosaudi era legata al governo dell’Arabia Saudita e che in questo contesto avrebbe effettuato degli apporti alla joint venture nella forma di attivi petroliferi significativi. In realtà, entrambe le affermazioni erano contrarie alla verità, e gli imputati ne erano coscienti. L’agire degli imputati ha generato - ancora secondo i giudici - una certa fiducia nelle persone truffate (ovvero alcuni membri del CdA di 1MDB), ponendole in una posizione delicata. Queste circostanze hanno permesso l’esecuzione dell’inganno astuto, che mirava al trasferimento di 1 miliardo verso la joint venture e alla successiva distrazione. Il 70% della stessa è stata versata su un conto bancario la cui titolare era una società di Jho Low, il quale ne ha trasferita una parte agli imputati; il surplus è stato utilizzato a favore dei due uomini. Per questa fattispecie, la Corte penale ha riconosciuto gli imputati colpevoli di truffa.
Nel dicembre del 2009, poco dopo la distrazione del miliardo di dollari, tra gli imputati prende piede l’idea di una conversione della joint venture in prestito islamico; questo strumento, presentato a 1MDB come più stabile e redditizio, era in realtà unicamente finalizzato all’ottenimento di ulteriori fondi. È in queste circostanze che nel luglio 2010, gli imputati hanno richiesto a 1MDB la concessione di una tranche aggiuntiva di 500 milioni per l’acquisto di una pretesa partecipazione in un gruppo energetico francese a un prezzo del 20% inferiore a quello di mercato. Schema ripetuto nel maggio del 2011 con altri 330 milioni. Per queste due fattispecie la Corte non ha ritenuto il CdA di 1MDB vittime considerando solo in via subordinata la truffa aggravata.
Il reato di riciclaggio è quindi una conseguenza della truffa con numerose operazioni finanziarie tese a vanificare l’origine criminale del denaro. La Corte ha ritenuto che una pena detentiva fosse adeguata. Per determinarne l’entità, «sono stati considerati gli importi molto elevati in gioco, l’intensità dell’attività criminale, il movente egoistico e, come fattore attenuante, il tempo trascorso».
Procura soddisfatta
Per il Ministero pubblico della Confederazione si tratta di «un risultato importante nell’ambito di un procedimento penale molto complesso con ramificazioni internazionali», si legge in una nota. «La sentenza dimostra che i crimini economici vengono perseguiti indipendentemente dalla loro complessità e sofisticazione. Sottolinea altresì il forte impegno delle autorità di perseguimento penale in materia di protezione dell'integrità della piazza finanziaria svizzera».
Nessun pericolo di fuga, arresto negato
Tra le altre richieste dell’accusa vi era anche quello della detenzione immediata di Tarek Obaid e Patrick Mahony perché esisteva un pericolo di fuga. Su questo punto c’è stato un piccolo giallo. Durante la lettura della sentenza il presidente della Corte David Bouverat ha fatto cenno alla richiesta della procuratrice Alice de Chambrier ma non si è pronunciato. È stato fatto solo al termine della lettura della sentenza con Bouverat che ha domandato se l’accusa manteneva la richiesta di arresto. Punto confermato dalla PP ma respinta - dopo un mini dibattimento a porte chiuse - dalla Corte penale che non ha ritenuto credibili e dimostrati i timori del Ministero pubblico.