Chiasso

Galantuomo e generoso, ma pur sempre rapinatore

Più di quaranta rapine e altrettanti anni passati dietro le sbarre: è il curriculum dell’uomo che, insieme ad altri due correi, è stato condannato per atti preparatori punibili di rapina
©DPA/Silas Stein
Stefano Lippmann
24.09.2024 17:10

Erano in tre, questa mattina, davanti alla Corte delle assise criminali presieduta dal giudice Siro Quadri. Ma la scena, volenti o nolenti, se l’è presa lui, l’imputato più anziano: un cittadino italiano, con un cognome che richiama una città olandese, di 76 anni. Lui che, al momento della cosiddetta ultima parola – prima che la Corte si riunisse in camera di consiglio per discutere della sentenza – ha detto: «Sicuramente la prossima volta che apparirò sui giornali o in televisione non sarà per rapine». Già, perché l’uomo e i due correi – cittadini anch’essi italiani di 67 e 34 anni – sono stati condannati a 26 mesi di carcere, sei dei quali da espiare, il resto sospeso condizionalmente per 4 anni. E all’espulsione dalla Svizzera per sette. I reati? Appunto: atti preparatori punibili di rapina e ripetuta infrazione alla Legge federale sulle armi e sulle munizioni.

Sei tu Robin Hood?

La scena, come anticipato, in aula se l’è presa il 76.enne, difeso dall’avvocato Simone Beraldi. Più di metà vita, all’incirca quarant’anni, passati in carcere. Basta fare una veloce ricerca in internet e si trovano innumerevoli articoli di giornale della stampa italiana: «La leggenda del buon rapinatore», tanto per citarne uno. L’uomo, infatti, nella sua vita ha messo a segno un numero imprecisato di rapine. E almeno, come detto, 40 anni di carcere. Ma lo ha fatto, per certi versi, anche con una certa etica. Anche quest'oggi, in aula, ha spiegato che i soldi che «rastrellava» servivano per la sua missione in Brasile: un orfanotrofio (o forse una casa per studenti) da lui creato tanti anni fa. E, a dire il vero, qualche riscontro, negli anni scorsi, gli inquirenti italiani erano pure riusciti a trovarlo. Oltre ad un’etica tutta sua, il 76.enne aveva anche un modus operandi con un certo «garbo». Va da sé, una rapina è una rapina ed è sempre terrorizzante per una vittima. Il 76.enne, dal canto suo, agiva sempre a volto scoperto e, al massimo, faceva vedere il calcio di una pistola (non vera).

Dalla Gorgona a Chiasso

Ma come si è arrivati a processare l’uomo, e i due correi, in Svizzera? Tutto è nato alla Gorgona, un’isola in Toscana che ospita un carcere. Luogo nel quale i tre si sono conosciuti. Il 76.enne, il 67.enne con precedenti specifici difeso dall’avvocato Enrico Germano e il 34.enne – assistito da Walter Zandrini – che stava scontando una pena legata al traffico di stupefacenti. Una volta usciti dal carcere, e passato del tempo, i tre si sono incontrati – «quasi per caso» – nel bar di Livorno dove lavorava il 34.enne. Lì è nata l’idea di mettere a segno il colpo. «È saltata fuori la possibilità di fare la stessa cosa di 17 anni fa» ha spiegato in aula il 76.enne. Ovvero prendere nuovamente di mira (la prima volta sembra che il colpo non sia andato a buon fine) un imprenditore attivo nel settore dell’acciaio in Italia che, a Vaduz (Liechtenstein), avrebbe avuto con sé una valigetta contente, sembra, sei milioni di euro. Nei primi giorni di maggio il terzetto noleggia un’auto e parte alla volta della Svizzera. E una volta giunti alla dogana di Chiasso, durante un normale controllo, nel veicolo vengono trovate tre pistole scacciacani, passamontagna e berretti. Alla domanda sul perché ci fossero quegli attrezzi la risposta del 76.enne è stata trasparente: «Volevamo fare una rapina».

Precedenti che pesano

Di fronte all’ammissione e alla collaborazione fornita durante l’inchiesta coordinata dalla procuratrice pubblica Margherita Lanzillo, la Corte ha infine emesso la sentenza, «seguendo la tesi delle parti». Accusa e difese, infatti, hanno formulato una proposta di pena, come detto, accettata. «Indiscutibilmente – ha motivato il presidente Siro Quadri – le attrezzature rinvenute nell’auto sarebbero state utilizzate per quella che, nelle migliori delle ipotesi, era una rapina». E, nella commisurazione della pena, la Corte non ha potuto ignorare «i precedenti specifici. E che precedenti» ha sottolineato Quadri. Pur considerando, al netto, che nel caso concreto «non c’è stata messa in pericolo di qualcuno e la Corte è convinta che non sarebbe morto nessuno». Resta, soprattutto per il 76.enne, un curriculum criminale di innegabile spessore. E resta pure, come sottolineato anche in aula, un alone di mistero sulla rapina che il terzetto avrebbe dovuto compiere a Vaduz. L’imprenditore oggetto dell’azione era a tutti gli effetti una vittima? «Non è una vittima» ha risposto il 76.enne accennando un sorriso, rifiutando altresì di svelarne il nome.