Già 13 femminicidi in Svizzera, numeri in crescita in attesa di risposte

Quasi un femminicidio alla settimana. Sono tredici i casi contati finora in Svizzera: il doppio rispetto allo stesso periodo di un anno fa. L’ultima in ordine di tempo a perdere la vita è stata una trentanovenne, colpita dal marito con quattro colpi di fucile a Epagny, nel canton Friburgo, appena quattro giorni fa. Insieme a lei, in queste prime quindici settimane del 2025, è stata ammazzata un’altra decina di donne. La più giovane, secondo il monitoraggio condotto da Stopfemizid.ch, aveva ventun anni. La più anziana, invece, sessantotto. Una triste statistica a cui partecipa anche il Ticino, con il caso della ventunenne rumena uccisa a Lodrino a fine gennaio. La scorsa settimana, oltre trecento persone sono scese in piazza a Berna per chiedere un intervento delle autorità, affinché anche la Svizzera prenda sul serio il fenomeno e attui la Convenzione di Istanbul - firmata nel 2018 - sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne.
Non sempre c’è una sberla
Nel 2024, stando ai dati dell’Ufficio federale di statistica, la polizia ha registrato 21.127 reati di violenza domestica, in aumento del 6,1% rispetto all’anno precedente. Su 45 casi totali di omicidio, quelli commessi all’interno della sfera familiare sono stati 26, il 57,8% del totale. Diciannove erano donne e sono state uccise dal marito o dall’ex partner. «Numeri che non possono lasciarci indifferenti», commenta Roberta Schaller, giurista, criminologa e specializzata in violenza di genere e violenza domestica. Sì, perché se i casi italiani fanno scalpore, non dobbiamo pensare che in Svizzera vada meglio. Anzi. «Se consideriamo che l’Italia conta 60 milioni di abitanti e noi solo 9, capiamo quanto in realtà siamo messi male», dice Schaller. A livello europeo, racconta la giurista, a guidare la classifica per numero di femminicidi sono la Germania e la Gran Bretagna. «Dai miei contatti con chi opera sul territorio, so che Berlino ha grosse difficoltà ad affrontare la tematica, nonostante la stessa abbia assunto proporzioni molto allarmanti. Londra, per contro, negli anni ha fatto della violenza di genere una priorità, portando avanti un grande lavoro di prevenzione». In Svizzera, invece, «non si fa abbastanza». O meglio: «La prevenzione sulla violenza domestica viene fatta, ma si concentra prevalentemente sull’aspetto più evidente del fenomeno, ossia la violenza fisica. Mentre in realtà tutto inizia con la violenza psicologica». Spesso, racconta la criminologa, quando si verifica un femminicidio, prima non c’è stata neppure una sberla. Perché tutto si è consumato su un altro piano. Non fisico, ma emotivo. «E nonostante nel 2022 la Svizzera sia già stata richiamata al rispetto delle regole, non stiamo ancora facendo nulla per applicare davvero l’articolo 33 della Convenzione di Istanbul». Articolo che, citiamo, prevede l’adozione «di misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare un comportamento intenzionale mirante a compromettere seriamente l’integrità psicologica di una persona con la coercizione o le minacce».


I quattro segmenti
La violenza psicologica, che secondo Schaller rappresenta «il primo passo verso il femminicidio», si compone di quattro segmenti: il controllo coercitivo, la manipolazione, la denigrazione e l’isolamento della vittima. «Tutto parte dal controllo ossessivo, che mira a rendere la vittima conforme, sottomessa. Insomma, la mette in trappola». Tutto ciò produce nella donna «una paura cronica, meccanica. Non in risposta a un’azione, ma come modo di vivere. E che si differenzia dalla paura primaria, che è invece la reazione a un’azione violenta». Non a caso, dice Schaller, «spesso le mie clienti si portano dietro il senso di terrore anche quando l’autore della violenza non è ormai più nei paraggi e non rappresenta quindi più una potenziale minaccia». Ed è proprio da qui, secondo l’esperta, che bisogna partire per fare un vero lavoro di prevenzione. «Nel mio lavoro con i giovani, spesso mi sono imbattuta in una scarsa consapevolezza del concetto di privacy. Molti ritengono sia normale scambiarsi con il partner la password di accesso al computer e al cellulare. Invece, non lo è affatto: non è normale non avere alcuna indipendenza e pensare di poter avere accesso a tutto ciò che riguarda l’altra persona. Ci sono donne che vivono sotto il costante controllo del compagno o del marito, che mira a isolare la vittima per meglio manipolarla». Per questo, evidenzia, occorre fare un altro tipo di prevenzione, che non tenga conto soltanto della violenza fisica, ma anche di tutto ciò che si muove parallelamente ad essa e che rischia di rimanere sottotraccia.
Il nodo legislativo
A questo si aggiunge poi un ulteriore problema, quello legislativo. «Per costruire una denuncia ci vuole tempo, e un grande lavoro da portare avanti con la vittima. Più semplice, anche dal profilo psicologico, è lo strumento della segnalazione». In pratica, è sufficiente che la vittima, o una persona con cui si è confidata, facciano una segnalazione alla Polizia, che poi interverrà presso l’autore di violenza. «Spesso, la segnalazione è sufficiente a interrompere il ciclo di violenze, perché l’autore si sente messo alle strette dall’autorità e abbandona i propri propositi». Il punto, dice Schaller, è che nonostante le segnalazioni siano in aumento, ci si scontra con l’assenza di basi legali specifiche. «E finché non avremo articoli di legge ad hoc, sarà tutto vano. Le autorità saranno impotenti e la vittima si sentirà presa in giro. È come combattere contro i mulini a vento». Per cercare di trovare una soluzione, lo scorso novembre alcuni granconsiglieri ticinesi - sulla base di articoli di legge elaborati dalla criminologa Schaller - hanno depositato un’iniziativa cantonale per chiedere all’Assemblea federale di modificare l’ordinamento giuridico e prevedere specifici articoli di legge nel Codice penale per il reato di violenza domestica. «L’iniziativa è però ancora al vaglio del Governo, a dimostrazione di quanto la politica reagisca in modo troppo lento di fronte al problema», commenta la giurista. Gli altri Paesi, prosegue, «si stanno muovendo per cercare di affrontare il tema in maniera onnicomprensiva. Qui, malgrado l’impegno della Polizia, le autorità politiche non stanno agendo. Invece, le donne meritano di sapere attraverso la prevenzione come tenersi alla larga da potenziali relazioni tossiche e devono sapere che la legge ha gli strumenti per tutelarle».