Il caso

Il legionario partito da Lugano: «Volevo sconfiggere il terrorismo»

Per quasi tre anni un sergente ticinese ha fatto parte del corpo d’élite dell’esercito francese - Ieri è stato condannato dal Tribunale militare a una pena pecuniaria sospesa - «Vieni privato di tutto e costretto ad assumere un’identità fittizia: non volevo combattere, ma rendermi utile per il mio Paese al rientro da questa esperienza durissima»
Il 35.enne ticinese era di stanza in Corsica, fra i paracadutisti. © Shutterstock
Alan Del Don
John Robbiani
25.09.2021 06:00

«Quella fiamma che mi ha fatto partire non si è spenta, devo essere sincero. Così come gli ideali che mi hanno motivato». Non è andato in un posto qualunque il 35.enne sergente del Luganese comparso ieri di fronte al Tribunale militare 3, riunito nell’aula della Corte di appello e di revisione penale di Locarno. Ma ha bussato, nientemeno, che al portone del Quartier Viénot ad Aubagne, dove è stazionato il Comando della Legione straniera francese. Per tre anni circa, fra il 2018 ed il 2021, il ticinese ha fatto parte del corpo militare d’élite dell’esercito transalpino.

Unità di paracadutismo. Fino a raggiungere, dopo un addestramento tostissimo, il grado di caporale. Poi, con 24 mesi di anticipo rispetto alla durata minima del contratto, ha deciso di tornare a Sud delle Alpi. E di autodenunciarsi subito all’Ufficio dell’uditore in capo. Scontata l’apertura di un procedimento nei suoi confronti, sfociato nella condanna a una pena pecuniaria sospesa (50 aliquote da 150 franchi ciascuna, più una multa di 500 franchi) per il reato di indebolimento della forza difensiva del Paese.

Con képi, cravatta e basco
Fisico ovviamente prestante, ma voce tranquilla, quasi sommessa. Due ore scarse di dibattimento durante le quali il 35.enne ha spiegato al giudice, il colonnello Mario Bazzi, cosa l’ha spinto a lasciare famiglia, lavoro ed amici per indossare il képi bianco e la cravatta ed il basco verdi. Non voleva combattere. No. Tant’è che, una volta prosciolto dagli obblighi militari in Svizzera, ha consegnato tutto l’equipaggiamento, compresa l’arma. Ha scelto la Legione straniera in quanto «desideravo dare una mano. In quel periodo in cui avevo oramai maturato il convincimento, c’erano stati numerosi attacchi terroristici in Francia (ne ricordiamo solo due: l’attentato alla sede di Charlie Hebdo e la strage di Nizza; n.d.r.) e io non volevo restare con le mani in mano. Avevo provato ad entrare nelle Forze speciali del nostro esercito, ma purtroppo ero stato scartato». Così sceglie di diventare un legionario: «Avrei accumulato l’esperienza necessaria per poi rientrare e metterla a disposizione della Confederazione».

«Praticamente non esisti più»
Un’esperienza logorante, sia nel fisico sia nella mente. Che inizia con la perdita dell’identità: «Quando arrivi lì ti siedi su una panchina e aspetti fino a quando qualcuno viene ad aprire il cancello. Sei privato di tutto, compreso il passaporto ed il telefono cellulare. Ti viene dato un nome fittizio. Non puoi avere contatti con nessuno. Praticamente non esisti più». Un mese di selezione. In seguito altri 5-6 di formazione di base. Il 35.enne risulta il primo nei test fisici. Viene spedito in Corsica, fra i paracadutisti, «anche se avrei preferito entrare nel Genio, essere attivo in montagna». Non svolge missioni all’estero.

«C’è chi scappava di notte...»
È impegnato sul territorio dell’Esagono, in operazioni di sorveglianza contro il terrorismo. Passano tre anni. Viene promosso caporale. Il suo reggimento è pronto per partire per la Nuova Caledonia. Ma a lui non basta. Ambisce ad un altro avanzamento di grado. Non per boria, ma perché è cosciente del fatto che più imparerà, più potrà rendersi utile al rientro in Svizzera. Un viaggio che avviene prima del previsto: «Mi dissero che avrei dovuto restare almeno per altri cinque anni. Ho rinunciato. Sinceramente non so se vi è un procedimento aperto nei miei confronti in Francia». In Ticino si è rifatto una vita. Una compagna che lo ama. Un lavoro che lo appassiona. È sereno. «Difficile descrivere a parole quel contesto. C’è chi ogni notte tentava di scappare gettandosi dalle finestre. Per blocchi di sei mesi non puoi uscire dalla caserma. È dura».

Accusa e difesa a confronto
L’accusa, rappresentata dall’uditore Alessandro Mazzoleni, aveva chiesto per l’imputato la condanna a 80 aliquote da 150 franchi: «È vero, le sue motivazioni erano lodevoli. Tuttavia si è arruolato senza l’autorizzazione del Consiglio federale». Di tutt’altro avviso la legale del sergente, l’avvocatessa Valentina Guidi, per la quale avrebbe dovuto essere assolto: «Non ha indebolito la forza difensiva della Svizzera. Anzi, semmai è il contrario. Men che meno ha minato alla neutralità della Confederazione». È arrivata la condanna, alla fine. Con possibilità di fare appello.

Mercenari e neutralità
«Se uno svizzero si arruola in un esercito straniero senza il permesso del Consiglio federale è punito con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria». Così recita l’art. 94 del Codice penale militare. Unica eccezione: la Guardia svizzera pontificia. Il reato è chiamato «Indebolimento della forza difensiva del Paese». Ma come mai si è deciso di proibire il servizio militare all’estero? Ci sono ragioni storiche, economiche e geopolitiche. La Svizzera è stata per secoli una delle principali fonti di approvvigionamento di mercenari in Europa. Tanto che la fornitura di contingenti elvetici veniva spesso gestita dai Cantoni.

Nel 1474 Nicolao della Flüe lanciò un appello contro il mercenariato, anche perché capitava che svizzeri combattessero altri svizzeri. Nel 1848 vennero proibiti nuovi contratti con potenze estere, ma i reclutamenti individuali non cessarono. La legge del ‘27 deve anche essere letta a garanzia della neutralità. Per non mettere la Confederazione nella situazione di dover spiegare i motivi per cui dei suoi cittadini si sono schierati militarmente. E per non mettere in difficoltà la Giustizia. Le Corti potrebbero infatti essere tentate di graziare chi ha combattuto per una giusta causa. Ma il fatto stesso di riconoscere una «causa giusta» può creare grattacapi alla neutralità.