«Il passaggio da “veri uomini” a “uomini veri”»

«Io credo che il grande tema su cui lavorare sia l’educazione di genere». Secondo Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva e saggista, è da qui che bisogna ripartire: dai giovani e dalla loro educazione emotiva. «Spesso viene evocato il tema del patriarcato, che in effetti è una componente del problema, ma se penso a femminicidi commessi da ragazzi giovanissimi - come i due recenti casi italiani - il tema non è che stanno portando avanti la cultura del patriarcato, quanto piuttosto che sono davvero molto fragili dal punto di vista emotivo. Poco capaci di tollerare la frustrazione associata al rifiuto, connesso al fatto che una relazione non sta funzionando». In generale, osserva Pellai, «credo che questi ragazzi siano anche molto incompetenti proprio sul concetto di intimità. Noi vediamo la violenza di genere esclusivamente come un processo di possesso dell’altro, ma se invece lavoriamo un po’ anche sugli aspetti di analfabetismo emotivo che connotano la crescita al maschile ci accorgiamo che in realtà i maschi non sanno costruire intimità dentro le relazioni. Sono, insomma, molto sguarniti rispetto al sentire». Su questo tema, l’esperto ha lavorato molto negli ultimi anni, promuovendo libri - come Ragazzo mio. Lettera agli uomini veri di domani e Cose che ai maschi nessuno dice - e progetti che «devono consentirci di portare la crescita al maschile dal modello di ‘’vero uomo’’ a quello di ‘’uomo vero’’». Significa, in pratica, «abbandonare l’idea dell’uomo che non sente l’emozione di disagio, che non prova mai tristezza e paura, e avvicinarlo invece all’idea di un uomo che sa stare profondamente connesso con i propri stati emotivi e che anche dentro a una relazione affettiva sperimenta e ricerca la dimensione dell’intimità, più che la dimensione della coppia di fatto. Del fare coppia invece che dirsi partner di una coppia».
L’esempio della paternità
Nell’educare i giovani uomini, spesso ci si appella al ruolo educativo delle madri. Eppure, secondo Pellai, altrettanto fondamentali devono essere i padri. «Molte volte le mamme vengono chiamate in causa, soprattutto le mamme mediterranee. Madri che crescono ragazzi che non sono capaci di tollerare il no e la frustrazione perché vengono accontentati e supportati in tutto da mamme molto chiocce, sempre rispondenti a ogni loro bisogno, e che rendono poi incapace il ragazzo di sintonizzarsi invece sui bisogni dell’altro». Invece, «io credo che ci sia un grande tema legato alla trasmissione dei ruoli di genere al maschile, dal padre al figlio, e che proprio il padre sia un profondo testimone dei cambiamenti che oggi sono necessari se vogliamo fare veramente una prevenzione della violenza di genere». Lo psicoterapeuta parte dall’esempio della paternità, di come l’uomo che diventa padre sia profondamente coinvolto nella cura del proprio bambino: «Quello che accade a questo uomo è che le sue mani, prendendosi cura del corpo di un cucciolo d’uomo, cambiandolo e accudendolo, diventano mani che imparano il codice della tenerezza, invece che quello della violenza». Pellai racconta di aver lavorato per anni con molti uomini in un progetto chiamato «Il cerchio dei papà». «E quando chiedevo loro quale fosse l’emozione più forte che avevano sentito quando l’ostetrica ha dato loro in mano il proprio neonato, la risposta di quasi tutti era la paura di fargli male. Una risposta che mi ha sempre molto colpito: che cosa può esserci nelle mani di un uomo che, nel momento in cui stringe una vita appena nata, fragile e da proteggere, lo porta a pensare unicamente che, invece di essere mani che curano, potrebbero essere mani capaci di fare del male? Questo accade perché nel mondo maschile le mani vengono più premiate quando attaccano che quando proteggono».


Dal nascosto al visibile
Accanto al ruolo educativo dei genitori, però, fondamentale appare quello della comunità. Una comunità educante, che negli ultimi anni è evoluta. «Se non altro, la comunità ha compiuto questo primo passaggio importante dall’omertà e dal silenzio al dichiarare. Dal tenere nascosto al rendere visibile. Questo significa passare dalla pre-contemplazione alla contemplazione di un fenomeno. Non dobbiamo dimenticare che fino a non troppo tempo fa, e purtroppo ancora oggi in alcune culture e situazioni, la violenza intrafamiliare e quella di genere venivano tenute segrete, nascoste. Quello che succedeva dietro la porta di casa non era considerato un problema degli altri. Oggi, invece, sentire che questo è un tema di comunità è molto importante, perché è proprio dentro la comunità che si muovono sia le vittime che gli aggressori. E quindi è la comunità che può davvero, in qualche modo, mettere in salvo la vittima o fermare la mano di un aggressore». A questo proposito, Pellai sottolinea due aspetti. «Da un lato, trovo importantissima la comunicazione al maschile, perché l’uomo che commette violenza di genere è un uomo in mezzo a un mondo di uomini. Più volte è capitato che la cronaca riferisse di uomini femminicidi che avevano raccontato agli amici la loro intenzione. Ed è chiaro che se io, maschio tuo amico, ascolto il tuo racconto, cerco immediatamente di attivare un sistema di protezione intorno alla potenziale vittima, e faccio di tutto per fare in modo che il tuo pensiero omicida non diventi un’azione omicida. L’altro elemento fondamentale è che maschi e femmine convivono insieme fin dall’asilo nido e la scuola dell’infanzia. Ecco allora che tutti i progetti di educazione emotiva, affettiva, sessuale e di educazione di genere, sono molto importanti. Perché se portati nella comunità dei bambini e delle bambine prima, e dei ragazzi e delle ragazze poi, permettono di sviluppare competenze generate all’interno del gruppo. Consentono cioè a maschi e femmine di sviluppare un dialogo reciproco nel quale ciascuno modella le aspettative sull’altro genere con una modalità condivisa dal gruppo allargato».
Il rapporto con il dolore
Tornando ancora alla cronaca italiana degli ultimi giorni, emerge con chiarezza anche il tema dell’accettazione del rifiuto, a cui i ragazzi sembrano poco abituati. «Ed è correlato al fatto che oggi i nostri figli maneggiano malissimo e pochissimo il dolore», dice Pellai. «Ci siamo preoccupati di mettere sempre a loro disposizione una vita nella quale la frustrazione, il disagio, il rifiuto, il dolore, il no sono il meno presenti possibile. Quindi accade che poi, entrando in una precoce fase adulta, queste esperienze non fatte prima per loro sono frantumate. Un giovane che non ha imparato a stare nel principio di realtà, nel momento in cui il no e il brutto entrano nella sua vita diventa matto. Vorrebbe la realtà che intende lui, non quella che invece è. E quindi, pur di averla, commette atti terrificanti».