«Il popolo iraniano ha deciso di pagare il prezzo per la libertà»
Finché non saremo liberi, è il titolo del suo ultimo libro in cui racconta la sua vita. Una storia che, come lei sottolinea spesso, è anche quella del suo Paese, l’Iran. Shirin Ebadi, Premio Nobel per la pace 2003, per il suo impegno nella difesa dei diritti umani e a favore della democrazia, è stata la prima donna iraniana a diventare magistrato nel suo Paese. Dal 2009 vive in esilio a Londra per far conoscere al mondo ciò che succede in Iran. Ospite ieri di ChiassoLetteraria, l’abbiamo incontrata.
«La rivoluzione è come un treno, a volte va veloce e a volte rallenta per fermarsi in alcune stazioni. Fa scendere i passeggeri, però poi riparte. Funziona così. La gente non scende più in piazza numerosa come nei primi giorni, ma questo non vuol dire che abbia smesso, agisce soltanto diversamente. A manifestare adesso sono gli operai, i pensionati, gli insegnanti. La situazione in Iran non è affatto migliorata. Tutti i giorni avvengono manifestazioni di questo tipo nelle città, e non si fermeranno finché non ci sarà un cambiamento. Il regime non ci permette di sapere quante persone continuano a morire, riusciamo però ad avere queste informazioni dalle famiglie che perdono i propri cari. Inoltre, è la prima volta che tra i manifestanti si vedono anche ragazze giovani. Sono le stesse che in questo momento a causa del loro sostegno alle proteste vengono avvelenate nelle scuole. In tutta questa situazione l’unica cosa che mi conforta è vedere quanto la mia generazione sia riuscita a trasmettere coraggio alle nuove generazioni. Per questo motivo sono convinta che vinceremo».
Facciamo un passo indietro e partiamo dall’Iran degli anni Cinquanta e Settanta, in cui lei è cresciuta. Di quel periodo abbiamo immagini molto distanti dalla situazione attuale. Che cosa ricorda di quegli anni e che cosa l’ha spinta a diventare un magistrato?
«L’Iran è un Paese antico, come lo è la sua cultura. Un Paese in cui le donne hanno sempre manifestato e lottato per la propria libertà e in cui, nel 1962, hanno ottenuto il diritto di voto, ancor prima di quando è stato concesso alle donne svizzere. Purtroppo però, nel 1979, con la rivoluzione islamica, le donne iraniane hanno perso tutti i diritti che avevano e contro di loro sono state varate leggi discriminatorie. Ne cito solo alcune: ogni donna deve portare il velo altrimenti viene arrestata e maltrattata. Divorziare è quasi impossibile, mentre al marito viene concesso di avere quattro mogli. Una donna non può viaggiare senza il permesso del marito. Inoltre, la vita di una donna vale la metà di quella di un uomo, se capita un incidente il risarcimento non è lo stesso. Proprio a causa di queste leggi, le donne iraniane sono sempre state contro la rivoluzione e contro il regime. La notizia della morte di Mahsa Amini, uccisa lo scorso settembre proprio perché non portava il velo, è stata come accendere un fiammifero accanto a un carico di esplosivo. Questo è stato il motivo che lo scorso settembre ha fatto scattare una grande rivoluzione. Il suo grido è donna, vita e libertà, e ha due significati. Il primo è che noi non riconosciamo e non vogliamo un regime religioso. Mentre il secondo è che noi vogliamo un sistema democratico e secolarizzato, soltanto in questo modo questo grido può diventare realtà».
Nel suo ultimo libro, Finché non saremo liberi, parla di un momento per lei fondamentale: quando ha deciso di non far più ritorno in Iran e rimanere in esilio in Europa. Quali sono stati i suoi pensieri?
«Nel 2009 in Iran era in corso un’altra grande protesta, la gente denunciava i brogli elettorali, molte persone anche in quell’occasione sono state uccise per strada e arrestate. Appena prima del suo inizio mi trovavo in Spagna per un evento. Quando sarei dovuta tornare, il Paese che avevo lasciato non era più lo stesso. Avevano attaccato il mio studio, la mia casa, chiuso le sedi delle ong per cui lavoravo, sequestrato tutti i miei averi e chiuso i miei conti bancari. Siccome non mi trovavo in Iran, non potendo arrestarmi, hanno preso mio marito e mia sorella. Avrei voluto tornare, ma i miei colleghi mi hanno chiesto di non farlo per poter essere la loro voce, raccontare quello che stava succedendo. Questo destino è toccato a moltissime altre persone, meno in vista di me. Non posso immaginare cosa possa essere accaduto a studenti e giornalisti».
Una situazione che ricorda un po’ quella siriana.
«Mi dispiace molto per la situazione causata al popolo siriano. La Repubblica Islamica ne è responsabile. Inizialmente il popolo siriano combatteva in modo pacifico contro il regime di Bashar al Assad ed era molto vicino al successo. Poi l’Iran è intervenuto sostenendo il regime siriano, ammazzando la gente senza alcuna pietà. In seguito è cominciata la guerra civile e l’ISIS è riuscito a trovare uno spazio per prendersi una parte della Siria. L’Iran è intervenuto perché la Siria è la principale via di transito per le armi che fornisce a Hezbollah, di cui sostiene finanziariamente tutte le spese. È a causa di queste politiche che gli iraniani diventano sempre più poveri, l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Si tratta di soldi che dovrebbero essere spesi per costruire scuole e ospedali, ma che invece vengono spesi per il Libano e per la Siria. Spero che un giorno nel mio Paese possa regnare la democrazia e che anche il Medioriente diventi un posto migliore. Noi stiamo combattendo per quel giorno».
Lei ha detto spesso che parlare di democrazia occidentale quando si parla dei diritti delle donne è fuorviante, può spiegarcelo?
«In tutto il mondo le donne vengono discriminate, in qualche posto più di altri. In Europa avviene in modo diverso, non è la legge che discrimina, ma le donne non hanno sempre la possibilità di esercitare pari diritti. Per esempio quanti primi ministri donna ci sono stati. Nessuno dice che è proibito, però poi le donne non ci sono».
Quale messaggio sente di mandare alle nuove generazioni in Iran, e alla diaspora, che continuano a subire questa repressione?
«Qualsiasi cosa nel mondo ha un prezzo. Anche la democrazia. Sia i Paesi europei, sia gli Stati Uniti hanno dovuto combattere per ottenere delle libertà, e per farlo ci sono state delle guerre. Per l’Iran è la stessa cosa. Molte persone sono state uccise, però la gente ha deciso di pagare il prezzo per la libertà. Ed è questo a spaventare maggiormente il regime. Più il livello di violenza cresce, più la gente si riversa nelle strade a protestare. È doloroso vedere come in questo momento avvelenino le ragazze nelle scuole. Però queste ragazze continuano ad andarci perché sanno bene di non poter avere nessun futuro con questo regime. La disoccupazione in Iran continua a essere elevata, si guadagnano pochi soldi e la valuta nazionale si è abbassata tantissimo. Io non posso far altro che ammirare queste ragazze e questi ragazzi».
Dopo aver ricevuto il Premio Nobel per la Pace il regime ha fatto di tutto per metterla a tacere. Può raccontarci quali sono stati i momenti più difficili?
«Una persona che combatte contro una dittatura non può non aspettarsi questi comportamenti, hanno cercato anche di uccidermi. A sessantadue anni le persone normalmente pensano alla pensione, io ho perso tutto quello che avevo. Il mio Paese, i miei amici, il mio lavoro, la mia casa, mio marito, mia sorella. Quando li hanno arrestati per liberarli mi hanno chiesto di smettere di denunciare il regime. La mia risposta è stata che li amavo, ma che amavo di più la giustizia. Sono contenta di essere riuscita a dimostrare alla mia età di poter ricominciare da zero».
Vorrebbe tornare nel suo Paese?
«Tornare in Iran è quello che sogno, è quello che voglio. Sono sicura che molto presto coronerò questo desiderio. Quando nel mio Paese tornerà la democrazia, tornerò insieme a lei».