Il prodotto sei tu: riusciresti a «vendere» te stesso?

«Vendimi questa penna». È diventata iconica la scena del film di Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street, in cui il broker Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio), rivolgendosi a una vasta platea, esorta gli aspiranti venditori a essere il più efficaci possibile in pochi secondi. Ma se al posto della penna ci fossimo noi? «Vendimi te stesso», direbbe Jordan Belfort. Perché, anche se suona davvero male, il prodotto siamo noi. Lo siamo, in un certo senso, quando compiliamo un curriculum vitae o quando cerchiamo di valorizzare la nostra immagine sui social network. E lo siamo ogni volta che cerchiamo di «sponsorizzare» le nostre competenze per far colpo su qualcuno, sia esso un particolare pubblico di riferimento o un datore di lavoro. C’è un termine anglosassone per indicare tutte le strategie volte a promuovere noi stessi come fossimo un marchio: personal branding. Negli Stati Uniti, oltre alle competenze strettamente connesse a un impiego, contano anche le cosiddette mad skills, capacità insolite che possano incuriosire chi è chiamato ad assumere. Una tendenza che sta prendendo piede anche in Svizzera, seppur in modo più sfumato. Abbiamo affrontato l’argomento con il professor Luca Massimiliano Visconti, decano della Facoltà di comunicazione, cultura e società all’USI, parlando pure del ruolo dei social media e degli influencer, figure che hanno trasformato il personal branding in un vero e proprio business.

Nelle start-up americane, specialmente quelle della Silicon Valley, le cosiddette mad skills sembrano rivestire un ruolo sempre maggiore quando si parla di colloqui di lavoro. In Svizzera, seppur meno importanti delle hard skills, possono comunque fare la differenza per trovare un impiego. Quali sono i pro e i contro di questa tendenza?
«Le mad skills sono in sostanza un tema molto tradizionale. Nei curricula, perlomeno in contesti italofoni, si è sempre potuta inserire una sezione dedicata agli interessi personali, in cui far emergere queste competenze atipiche. Pensiamo agli sport estremi: oggi vengono classificati come mad skills. La vera novità, al di là del diverso appellativo, consiste quindi nell’accresciuta importanza che i selezionatori accordano alle mad skills. È interessante poi sottolineare come le mad skills, nel processo di selezione del personale, forniscano informazioni interessanti sia sul fronte delle imprese selezionatrici, sia su quello dei possibili dipendenti. Partiamo dal lato dell’impresa. Con questa moda del sottolineare l’importanza delle mad skills, le imprese vogliono lanciare un messaggio ai dipendenti, ossia “siamo diverse, siamo più attente alla specificità umana dei dipendenti, siamo più curiose e disponibili a prendere dei rischi”, non sorprende che sia una tendenza che viene dalla Silicon Valley. Si tratta di strategie di “employer branding“, ossia di azioni volte a rendersi attraenti come datori di lavoro, un aspetto – diventato di rilevanza centrale soprattutto per le nuove generazioni – o per i nuovi talenti, se si preferisce. Significa, diversamente dal passato, che avere una fortissima notorietà del brand corporate, come ad esempio quelle multinazionali per cui i candidati facevano la fila, non è più sufficiente. Oggi, la motivazione specifica per il lavoro e la genuinità del datore di lavoro vengono prese in considerazione dai giovani potenziali dipendenti: le mad skills diventano quindi un segnale inviato a questi possibili candidati. Sul fronte del candidato, le mad skills inviano a loro volta un segnale. Non si tratta solo di segnalare di essere al corrente di questa moda, o necessità, del momento. Soprattutto, si tratta di segnalare la propria capacità di appassionarsi e dedicarsi a una qualunque attività. Mi spiego: da sempre consiglio agli studenti dei miei corsi di inserire nel CV passioni e interessi personali, anche non correlati all’opportunità di lavoro per cui si candidano, a condizione che siano attività fatte in maniera sistematica e dedicata, con un vero investimento. In un colloquio di lavoro bisogna fare capire di esser capaci di dedicarsi seriamente a qualcosa. È dunque positivo mostrare di avere una vita al di fuori dello studio e del lavoro, e di coltivare passioni che si è in grado di perseguire con impegno. Detto questo, mi intimorisce l’idea che le mad skills possano diventare un elemento di sostituzione delle competenze necessarie per lo svolgimento di un certo lavoro. Uno dei temi che discutiamo nel marketing è proprio quanto siano ancora importanti le competenze, il cosiddetto expertise. In una società come la nostra, molto mediatizzata attraverso un sistema che è anche quello dei social, sembra che, per una serie di persone, l’importanza dell’esperienza stia diminuendo. E quindi l’idea di ritrovare in un colloquio di lavoro - che in passato era un contesto tecnico di selezione - qualcosa che bypassi le competenze a favore di altre caratteristiche del candidato, mi preoccupa. Sarebbe interessante che in un colloquio di lavoro, a parità di competenze dei candidati, si utilizzino le mad skills per capire se una certa persona possa avere un rapporto migliore con la cultura organizzativa dell’impresa e con i colleghi, ma sarei contrario all’utilizzo delle mad skills come alternative ai percorsi formativi e all’esperienza sul campo. Queste caratteristiche non possono essere sostituite da aspetti per me secondari in un contesto di selezione».
Allarghiamo il discorso al personal branding: di fatto in un colloquio si cerca di «vendere se stessi» a un datore di lavoro. La promozione di sé però può partire ben prima dell’incontro, sui social media...
«Il tema del personal branding non è nuovo, ma negli ultimi tempi sta esplodendo. Il termine è comparso nel 1997 in relazione a un libro di Tom Peters, intitolato The brand called you (traducibile con: la marca sei tu). Quindi trasformare se stessi in una marca, costruire sulla propria notorietà e immaginare di posizionarsi rispetto ad altri candidati in un colloquio di lavoro, sono concetti già noti. Il fenomeno piuttosto è stato accelerato e amplificato da una serie di meccanismi, tra cui i social media, che, nell’arco di un decennio, hanno creato una possibilità, più o meno volontaria, di costituirsi come marche personali. Quando dico “più o meno volontaria“ intendo che un selezionatore del personale oggi può cercare di capire l’asset brand di un candidato semplicemente vedendo cosa trova in rete su di lui. Non penso tanto al profilo Linkedin del candidato, di solito creato già con l’idea di posizionarsi nel contesto professionale; piuttosto di quello che viene diffuso sui classici Facebook, Instagram o TikTok. Qui possono esserci contenuti che non sono stati condivisi con obiettivi di personal branding, ma che un recruiter può trovare e utilizzare per farsi un’idea del candidato. Il personal branding è un’evidenza, e in alcuni settori è uno degli asset principali, se non il principale, di cui un soggetto può disporre. A titolo di esempio, questo vale per le industrie creative, ma anche per l’informazione e la formazione: gli stessi giornalisti come primo asset hanno il proprio nome e reputazione. È un tema classico in alcuni settori, ma sta diventando rilevante in molti altri».
I social media possono essere un’arma a doppio taglio? Penso a un selezionatore del personale che visita l’account di un candidato non troppo attento ai contenuti che diffonde...
«Chiaramente ci sono dei rischi. È eclatante il recente caso di una manager assunta in una posizione apicale di un’impresa americana. Dopo esser stata nominata per la posizione, con ampia circolazione della notizia sui media internazionali, si è poi scoperto che all’epoca degli studi universitari, anni prima, la donna aveva postato sui social posizioni che potevano essere tacciate di razzismo. È partito un attacco mediatico sia contro di lei, sia contro l’impresa che l’aveva nominata, fino ad arrivare al suo licenziamento, prima ancora di entrare in carica. Questo è un caso che ha fatto rumore, ma tutto quello che mettiamo a disposizione di un pubblico, spesso poco identificabile in maniera esatta, resta sul web. Ci sono meccanismi di tutela e privacy, ma a volte ci si dimentica che il web vive su tempi molto lunghi: ha una memoria che supera ampiamente i tempi dell’essere umano, e quello che postiamo in maniera poco consapevole può essere, invece, cercato in maniera intenzionale da un terzo soggetto, tra cui un potenziale datore di lavoro».
Questione influencer: per loro i social sono diventati IL posto di lavoro, piuttosto che un posto per cercare lavoro...
«Gli influencer hanno fatto del personal branding un vero e proprio business, e quindi hanno ulteriormente focalizzato l’attenzione sui meccanismi di costruzione e di utilizzo a fini commerciali del personal brand: se ne può fare un uso limitato, se si tratta di attrarre potenziali datori di lavoro, oppure ci si può spingere più in là, facendone un vero e proprio business. In questo caso si costruiscono contenuti, non sempre qualificati, in grado di posizionarci e creare un sistema di follower, sistema che poi viene rivenduto alle imprese interessate a raggiungere determinate popolazioni di potenziali clienti. Questi sono i fenomeni dell’influencer marketing, che ormai tutti abbiamo imparato a conoscere».
Gli influencer non rischiano di essere l’appiattimento dei tradizionali critici? Cioè, oggigiorno il pubblico non è più indirizzato dagli esperti di settore, ma da persone promosse da una massa di utenti sul web...
«Per certi versi è così. Agli occhi di molti, oggi gli influencer assumono la posizione che una volta era occupata da opinion leader, giornalisti, docenti, o chiunque svolgesse un ruolo di ricerca e critica in determinati campi settoriali: i cosiddetti opinion maker. Tipicamente però l’assunto era che, per poter esercitare influenza sull’opinione di altri in un settore, bisognava aver maturato esperienze o acquisito conoscenze specifiche in quel settore. Le vere novità legate agli influencer come odierni opinion maker sono due. La prima è l’ampiezza delle popolazioni su cui la loro influenza può essere esercitata. A volte parliamo di decine di milioni di persone, con cui non c’è nessuna connessione personale e nessun contatto diretto. C’è solo la tecnologia che permette di raggiungere una platea così vasta, così rapidamente e a costi tanto limitati. La seconda novità - ancora più importante - è che questi processi di influenza non sono necessariamente basati su delle competenze. Questo aspetto a mio avviso è molto grave, perché ci ritroviamo confrontati con tuttologi che si esprimono su qualunque cosa, senza aver avuto il tempo di studiare o fare esperienza, e senza essere davvero qualificati per dire qualcosa di rilevante e costruttivo su un tema. Il fenomeno dell’influencer marketing solleva dubbi riguardo a un suo certo utilizzo, ma non sul principio dell’influenza in sé. Io sono ben disposto nei confronti di chi esercita influenze sulla base di competenze dimostrate; altrimenti la trovo una cosa azzardata, per non dire dannosa. È come se uno sportivo di talento, anziché dare suggerimenti su come allenarsi, iniziasse a parlare di prodotti di bellezza o politica. O di medicina, come i recenti tempi ci insegnano».