Il sindacalismo nel sangue, Molino Nuovo e l'Ambrì Piotta nel cuore
Giangiorgio Gargantini è un luganese DOC, ma la sua fede sportiva è biancoblù. È cresciuto a Molino Nuovo, simpatizzante dei molinari, ha studiato storia a Ginevra dove ha poi mosso i primi passi da sindacalista. Lo abbiamo incontrato.
L’appuntamento con Giangiorgio Gargantini è alle 14 in piazza Molino Nuovo, dove trova spazio la fontana progettata da Tita Carloni, spenta per la stagione invernale, ma che è ancora una particolarità del quartiere di Lugano. Gargantini arriva puntualissimo, «sono preciso, meticoloso, alcuni mi dicono anche troppo». Una stretta di mano e ci apprestiamo a fare un breve percorso nella sua Lugano, un po’ croce e delizia come scopriremo cammin facendo. «In questo luogo c’è uno spaccato del mio vissuto, della mia infanzia, è il cuore del mio quartiere. Sono nato all’Ospedale Civico, non lontano da qui in linea d’aria, i miei genitori vivevano a due passi da qui, in via delle Aie, ho frequentato le elementari della Gerra e ho abitato in via Trevano. Tre punti che hanno contraddistinto la mia famiglia, con mio padre che ha lavorato per molti anni per la polizia comunale e i pompieri della città, mentre la famiglia di mamma, Cambrosio, aveva una panetteria-pasticceria il cui laboratorio era proprio qui a Molino Nuovo». Insomma, un luganese doc. Ma oggi lei dove vive? «A Breganzona». Quindi in collina, si è forse un po’ imborghesito abbandonando le origini di un quartiere popolare e oggi multietnico? «Non direi proprio, è solo il fatto che quando sono rientrato dall’esperienza universitaria e poi professionale da Ginevra, con Manuela, ora mia moglie, abbiamo trovato una soluzione lì». Giangiorgio, classe 1976, è cresciuto nella classica famiglia di quattro persone, «papà, mamma e Cristina, maggiore di me di 12 anni e che oggi è maestra a Lugano per la Scuola dell’infanzia. Detto delle elementari alla Gerra, le medie le ho frequentate a Trevano, dove ho iniziato il liceo, terminando poi facendo la maturità federale».
«Maluccio in condotta»
«Molino Nuovo è visto a torto come una periferia anonima della città, forse da chi vede Lugano come composta solo dalle strade attorno a via Nassa e Piazza della Riforma. La città va considerata come un insieme di quartieri, qui c’è vita, ristoranti e negozi». Ma anche diversi take-away, aggiungiamo. È un po’ tutto un mordi e fuggi? «Non mi esprimerei in questi termini, la ristorazione classica non manca e qui, in questa piazza ricordo anche i mercatini». Ma in questa fontana il giovane Giangiorgio (per gli amici Giangio) ha mai fatto il bagno? «Certamente che l’ho fatto qualche volta da piccolo. E ricordo quando in questa zona giravo in bicicletta, poi da ragazzo in mountain bike e non dimentico le manifestazioni che si sono tenute proprio qui, anche con il Molino negli anni Novanta». Poi volge lo sguardo e con il braccio e l’indice teso indica un negozio: «Proprio lì ho acquistato il completo che ho indossato quando mi sono sposato». E poco più in là «il mio allenatore di tennis da tavolo (ndr. ping pong) aveva una farmacia». Tanti ricordi, ma che bambino e adolescente era «Giangio»? «Abbastanza vivace e non facilmente inquadrabile nelle logiche scolastiche, forse per le mie caratteristiche caratteriali. Le mie note di condotta non erano mai eccellenti, già alle elementari». E la materia preferita? «La storia ed è poi stato il mio percorso universitario». La scelta è caduta su Ginevra: da un quartiere popolare a una città internazionale. Un caso? «Il fascino di Ginevra e il fermento culturale di quella città, compresa la realtà delle case occupate. Mi ha attratto una città veramente alternativa a metà degli anni Novanta. Un faro per tutta l’Europa in questo senso». Una provocazione: ma stava in una casa occupata o in un appartamento pagato? «All’inizio ero in una casa dello studente, poi in un regolare appartamento, facendo parte del mondo associativo, ma tenendo ad un luogo solo mio per potermi ritirare per un po’ di tranquillità».
La musica e le carte
«Ho iniziato a giocare a calcio negli allievi del Lugano e ricordo che l’allenatore mi disse che se ero solo la metà di mio padre eravamo a posto, in realtà non ero neppure un quarto di lui. Così ho fatto diverse attività, bicicletta, tennis e ping pong. Ricordo molti figli di immigrati che giocavano con me. Sono sempre stato una persona aperta, un uomo che ama il contatto con le persone, senza alcuna distinzione. Molino Nuovo è un po’ lo specchio della realtà migratoria e delle ondate che ci sono state. È sempre stato un quartiere popolare e fa parte della mia storia, forse è anche per questo che alla fine ho scelto la storia come percorso universitario e a distanza di anni lo sento come una parte di me. Tanti ricordi li ho delle ore trascorse al Biblio cafè “Tra l’altro”, un luogo di scambio e condivisione, anche lui a pochi metri da questa piazza». E oggi cosa ama fare nel tempo libero? «Mi piace stare in compagnia con amici, una cena o un po’ di musica, ma anche serate con giochi di società o giocando a carte». Ha detto musica? «Sì, per anni ho suonato come percussionista (molto modesto, lo sottolineo), congas, darbuka, djembe e bodhran. Un gran divertimento e con il nostro gruppo “Eskarghochô” abbiamo anche inciso un CD».
Il ritorno in Ticino
E siamo alla famiglia, partendo dalla conoscenza di sua moglie: «Ci siamo conosciuti a Ginevra dove ho vissuto 19 anni, mentre lei 14 anni. È ticinese come me, mentre lei ha studiato italiano e spagnolo, mentre ora lavora come infermiera nel luganese. Io dopo gli studi ho lavorato per un sindacato interprofessionale ginevrino (non ancora) Unia che collaborava con Unia. Al momento di rientrare in Ticino la scelta è stata praticamente automatica».
Il Molino e l’HCAP
Ci incamminiamo e passiamo davanti all’Università: «Sono partito per Ginevra nell’anno che nasceva l’USI e ricordo un’intervista alla RSI nella quale mi chiedevano perché non restare in Ticino. Il motivo fu anche l’assenza del curricolo che cercavo e oggi sono felicissimo di quell’esperienza di studio e di vita». Poco dopo eccoci davanti all’ex Macello fatiscente dove ci sono ormai le macerie dell’autogestione del Molino: «Ho vissuto quell’esperienza sin dall’inizio, c’ero quando tutto questo è nato ed è una ferita ancora aperta per me il triste ricordo di quella notte di fine maggio. Il Molino per me vive ancora oggi, ma certo che prima era tutto diverso e il futuro chissà cosa ci riserverà». Gargantini ha poi una grande passione, l’Hockey Club Ambrì Piotta: «L’HCAP è nel mio cuore e ricordo ancora quando studiai come un matto per un cinque in una verifica alle medie, una condizione posta per guadagnarmi una trasferta ad Ambrì in Curva Sud alla Valascia. Oggi vado molto meno, ma sono sempre uno sfegatato biancoblù». Lo sport e le curve è lo spunto per parlare di politica. E cosa ne dice delle frange di tifosi politicizzate? «Non mi pongono alcun problema, anzi. D’altronde lo sport è legato alla politica, lo sport si serve anche della politica, e viceversa. È un falso problema». Ad Ambrì è risaputo che la frangia militante pende a sinistra, ma la dirigenza non propriamente. Ma se oggi l’Ambrì ha una stupenda pista e una squadra che trasmette emozioni non è grazie al presidente Filippo Lombardi, di certo non di sinistra. Si sente di rendergli un riconoscimento? «Il successo di un club e una squadra lo fanno tutte le sue componenti, trovo sbagliato individuare un solo protagonista».
Quel triangolo a Lugano
Pochi metri ed eccoci sul ponte che separa via Maggio dall’inizio di via Serafino Balestra. Gargantini si ferma per dare la sua lettura di alcune realtà di quel luogo: «A pochi metri di distanza abbiamo il Molino, la Fidinam e la sede di Philipp Plein. Quest’ultima era stata al centro della polemica per violazione di diverse leggi sul lavoro e al Municipio che la difese regalò un super mazzo di rose bianche, Fidinam è stata citata in alcune inchieste non propriamente all’acqua di rose e il Molino è stato violato violentemente. La disparità di trattamento mi pare palese e lo sdegno è stato selettivo, salvando sempre i poteri forti. Ecco cosa è accettato e cosa no. La crassa illegalità viene ignorata». Ma perché lei non parla bene di altre realtà economiche e della piazza finanziaria? «Semplicemente perché non è un compito mio, sono un sindacalista, non un elogiatore. Sono sereno e lo riconosco. Parlo di ciò che emerge e sciocca, ma sono cosciente e rispetto tutte le realtà sane. Io sono il megafono delle denunce che, senza la nostra azione, non emergerebbero».
La pietra di ottone
Siamo ormai in prossimità della sede di Unia in città e Gargantini ci accoglie nel suo ufficio. «Cosa è?» gli chiedo indicando una pietra di circa 10 centimetri sotto lo schermo del suo PC. «La prenda, ma occhio che pesa» replica. Minuta ma massiccia, confermo. «Si tratta di materia prima di ottone lavorata presso l’azienda Swissmetal Boillat di Reconvillier, protagonista di uno sciopero storico nel 2005 quando io ero studente e con un gruppo di compagni mi ero recato ad aiutare i lavoratori in sciopero. In quel momento ho imparato quanto fosse importante affiancare i lavoratori, ascoltarli, vivere giorno dopo giorno la loro esperienza. Questo oggetto ogni giorno mi ricorda da dove viene il sindacato e quel è il mio mandato. Ma anche che la lotta è un elemento costituente del fare sindacalismo».
L’ufficio e la camera
Immediatamente ho notato nell’ufficio e sulla scrivania un ordine incredibile. Non una penna e non un foglio sul tavolo. Classeur disposti per temi e colore, e una piccola cassettiera di sospesi. Gargantini, due le ipotesi: o qui non lavora nessuno, oppure è maniacalmente ordinato. «Buona la seconda, non sopporto il disordine e impiego molto tempo a tenere tutto al suo posto, talvolta anche passando in ufficio la domenica. Mi aiuta nel lavoro e nella puntualità e il tempo investito è del tutto guadagnato». Vuole farci credere che sua madre non ha mai detto «Giangio, riordina la camera!». «Assolutamente no è capitato più di una volta. Poi, con il trascorrere degli anni ho imparato ad essere ordinato, è anche un metodo di vita».
Una cosa alla volta
Si capisce che il sindacalismo lo ha nel sangue, ma ha mai pensato alla politica? «Sono radicalmente di sinistra, ma questo non significa che io debba schierarmi in politica. Su questo sono tassativo. Si fa bene una cosa alla volta e dover sottostare anche alle logiche e alle leggi della politica partitica distoglierebbe la mia attenzione dal sindacato e dai lavoratori. C’è chi lo fa, nulla contro nessuno, ma non mi si chieda di farlo». La sinistra è comunque il suo mondo, provi a dire qualcosa di destra o centrodestra: «Non ci riesco, sui valori non transigo, non insista».