In arrivo undici celle femminili alla Stampa
«Il problema, effettivamente, c’è: per le donne che eseguono una pena alla Farera le condizioni di detenzione non sono ideali, e le possibilità sono limitate rispetto a quelle degli uomini alla Stampa». La direttrice della Divisione della giustizia Frida Andreotti non usa giri di parole per descrivere la situazione delle donne incarcerate in Ticino, anche se si sta lavorando a una soluzione. Il problema - chiarisce - «è però limitato all’esecuzione della pena nel carcere chiuso», mentre la carcerazione preventiva e l’esecuzione della pena nel carcere aperto sono identiche per uomini e donne. Alla Farera, dice dal canto suo il direttore delle strutture carcerarie Stefano Laffranchini, «la situazione presenta una serie di svantaggi per le detenute rispetto agli uomini: meno opportunità formative, nessuna possibilità occupazionale, meno tempo da poter passare fuori dalla cella. Fondamentalmente, minori possibilità di risocializzazione e un percorso di recupero più difficile». Per le pene lunghe, invece, si pone un problema diverso: «Le donne vengono trasferite oltre San Gottardo e possono stare nelle due strutture femminili esistenti a livello svizzero, ma vengono sradicate dal tessuto sociale di riferimento». Eppure, sottolinea il direttore, «sarebbe sbagliato pensare che le detenute vengono dimenticate e che il Cantone in tutti questi anni è rimasto con le mani in mano. In carcere, il personale cerca di sopperire al limite logistico, cercando di seguire le detenute con maggiore attenzione, prodigandosi per alleggerire il più possibile la loro situazione».
Un percorso lungo 14 anni
Era il 2007 quando il Cantone decise di rinunciare alla sezione femminile. «Non c’erano quasi più donne, e si pensò di destinare la sezione agli uomini, vista la situazione di perenne sovraoccupazione del carcere», spiega Laffranchini. Nel corso degli anni, però, la situazione è cambiata. «Attualmente abbiamo 13 detenute, di cui 9 in regime ordinario o in esecuzione anticipata della pena». Con l’aumento delle detenute, sono state vagliate diverse ipotesi. «Abbiamo cercato vie alternative - sottolinea Andreotti - avviando uno studio di fattibilità per ripristinare la struttura di Torricella-Taverne come carcere femminile. Ci siamo però accorti che le tempistiche di realizzazione erano troppo lunghe - 6 o 7 anni - e il costo eccessivo: 6 milioni circa per ristrutturare solo una dozzina di celle. Non era una strada percorribile per gestire meglio e sul corto termine la carcerazione femminile, quindi questa opzione è stata accantonata».
Il progetto
Ora, però, si profila una soluzione. «L’idea - spiega Laffranchini - è di destinare alle donne uno dei dieci piani della Stampa che si è liberato lo scorso anno grazie a una pianificazione diversa delle sezioni. Il progetto prevede complessivamente undici celle (dieci normali e una destinata alle mamme con bambini)». Il costo si aggira attorno al mezzo milione, e la nuova sezione potrebbe essere aperta dal 2023. «Il problema non è tanto logistico, quanto piuttosto legato alla formazione del personale: servirebbero più agenti, ma anche una maggiore specializzazione per gestire le detenute di sesso femminile». Queste celle - chiarisce Andreotti - non saranno mai sottoccupate: «Se avremo un numero basso di detenute, ospiteremo le donne provenienti dai Cantoni romandi. Anche perché l’aumento del numero di detenute non riguarda solo il nostro cantone, ma tutta la Svizzera». Con l’apertura di una sezione femminile, inoltre, potranno anche fare ritorno in Ticino le detenute in esecuzione pena attualmente ospitate altrove. «Oggi sono cinque, ma solo due o tre potrebbero rientrare con l’apertura della nuova sezione, perché le altre si trovano in centri specializzati nella gestione di casi psichiatrici», chiarisce Laffranchini. L’apertura di una sezione femminile alla Stampa, «sarà comunque una soluzione diversa rispetto alle due strutture esclusivamente femminili in Svizzera, perché si tratta di alcune celle all’interno di un carcere maschile. Rappresenta perlomeno un passo avanti. Nel corso dell’esecuzione della pena, le donne potranno seguire una formazione e lavorare. E avranno maggiori libertà».
"Il reinserimento? Complicato"
Una volta incarcerate, per le donne alla Farera inizia un nuovo e complicatissimo capitolo delle loro vite. Le assistenti sociali sono le figure che le guidano nel loro percorso di riabilitazione, ponendo le basi per ciò che verrà dopo, il ritorno in libertà. «Le seguiamo quando entrano, ma anche una volta uscite dal carcere», spiega Sarah Jensen dell’Ufficio dell’assistenza riabilitativa. «Per le detenute viene stabilito un piano di esecuzione della sanzione, un percorso volto al reinserimento della persona detenuta». E qui si pone il problema: le donne, a differenza degli uomini, non possono lavorare, né seguire una formazione completa. «È difficile pianificare un reinserimento per le donne detenute alla Farera», ammette. Ma altrettanto difficile è riuscire a seguire quelle che vengono trasferite oltre San Gottardo. «Noi le seguiamo da qui, andando a trovarle saltuariamente. La distanza rende tutto più complicato, specialmente per il loro reinserimento in Ticino. Vengono allontanate dai loro affetti e da tutto ciò che conoscono, e questo è un problema. Con gli uomini, al contrario, il percorso di reinserimento può avvenire qui e, quindi, può essere portato avanti in modo più efficace».
La ‘‘gabbia’’ e il ‘‘prato verde’’
Per chi rimane in Ticino, c’è solo una possibilità: la Farera. «Si tratta però di una struttura nata per la carcerazione preventiva, certamente non pensata per far eseguire le pene ordinarie alle donne». Avere una sezione dedicata alle detenute è diventata «un’urgenza». Le detenute rinchiuse alla Farera, spiega Jensen, «spesso tendono ad adeguarsi alla propria condizione, e quando arriva il momento di uscire esternano i loro timori. Sono talmente abituate a vivere su un piano – al massimo percorrono i 20-30 metri che separano la cella dall’aula dei corsi – che hanno paura di uscire. Del resto, queste donne vedono solo muri grigi e passano l’ora d’aria in quella che definiscono “la gabbia”. Gli uomini, di là, possono passare qualche ora nel “prato verde” e sopra le loro teste non ci sono le sbarre, ma il cielo». Oltretutto, «gli obiettivi di reinserimento, rieducazione e riabilitazione qui non possono essere perseguiti. Al contrario di quanto accade alla Stampa».
Regole diverse
La giornata degli uomini è scandita in maniera precisa. Escono dalla cella al mattino per andare in laboratorio, hanno un po’ di tempo libero prima di pranzo, per poi riprendere il lavoro nel pomeriggio. Pranzano in cella e a cena possono cucinare nella stanza comune. Nel fine settimana, invece, possono passare il tempo nel prato verde. E le donne? «Passano gran parte della giornata chiuse in cella», risponde Jensen. In totale, le detenute in regime ordinario hanno a disposizione due ore d’aria al giorno e altrettante di formazione. «Corsi di base, perlopiù ideati per permettere loro di passare più tempo fuori dalla cella. Ma nulla a che vedere con il lavoro e i corsi di apprendistato seguiti dagli uomini». Il punto «è che alle detenute, pur in regime ordinario, si applicano praticamente le stesse regole che valgono per il carcere preventivo. Malgrado tutto il lavoro fatto negli anni, questo non è il posto per loro: una sezione femminile è necessaria».