L'intervista

«In dodici anni si dà tanto, credo nel sistema di milizia»

Marco Romano non si ricandiderà in ottobre: il consigliere nazionale del Centro ha comunicato ieri la decisione agli organi del partito – Lo abbiamo intervistato
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Gianni Righinetti
18.04.2023 06:00

Marco Romano non si ricandiderà in ottobre. Il consigliere nazionale del Centro ha comunicato ieri la decisione agli organi del partito. Eletto per la prima volta nel 2011, Romano ha rappresentato il Ticino a Berna per tre legislature. È stato membro di varie commissioni. Attualmente presiede la Commissione delle istituzioni politiche. Lo abbiamo intervistato.

 È stato complicato dire basta dopo 12 anni?
«È stato complicato, ma stimolante. La politica è fatta di emozioni e di ragione, condite da dedizione. All’inizio e alla fine di ogni sessione e seduta commissionale ci si rende conto di quanto sia appassionante e un onore essere al fronte a Palazzo federale. Il tempo però scorre inesorabilmente. Ho gli stimoli e l’età giusta per scrivere nuove pagine della mia vita. Per consolidare il mio sviluppo professionale, per costruire e cogliere nuove opportunità, per dedicare con maggiore intensità tempo alla famiglia e alle figlie in piena età per scoprire questo mondo».

E quale è stata la sua riflessione?
«Dodici anni non sono pochi e occorre riflettere. Nel nostro sistema politico si è di passaggio. Nel 2011, Chiara Simoneschi-Cortesi e Meinrado Robbiani (anche loro in carica per tre legislature, ndr.) diedero l’occasione per un ricambio. Un altro quadriennio sarebbe stata forse la decisione più facile, ma data l’età (41 anni, ndr.) e la necessità di non fare politica tutta la vita, è il momento opportuno».

È stato un conflitto tra pancia e ragione?
«Tra pancia e ragione ha vinto la ragione, sapendo di generare dinamiche utili a me stesso, al partito e alle istituzioni. La decisione è maturata sin dall’anno scorso. Meglio prenderla di persona che lasciarla a uno statuto. I maligni diranno che lascio perché ho paura di non essere rieletto. Ricordo che nel 2011 i due seggi vacanti dell’allora PPD erano tutt’altro che garantiti. Non ero tra i favoriti, ma la forte competizione interna contribuì a conservarli».

Che cosa è cambiato nella politica federale in questi 12 anni?
«Da un lato è cresciuta la polarizzazione, prima con l’UDC e poi con l’onda verde. Dall’altro il Ticino si allontana sempre più da Berna, anche perché, complici i media, l’attenzione è concentrata eccessivamente sulla politica locale. Ci sono meno corrispondenti e la stessa RSI, a mio avviso, non dedica sufficiente attenzione ai temi federali. Non c’è conoscenza profonda dei dossier e delle dinamiche, ci si ferma a posizioni stereotipate. Quindi Berna è anche più difficile da capire per il cittadino».

E che dire dell’accelerazione degli stati di crisi, tanti concentrati in un tempo ridotto?
«Negli ultimi dieci anni abbiamo vissuto una stagione di crisi che prima era diluita sull’arco di almeno tre decenni: la crisi con l’Unione europea, la pandemia, la guerra, la crisi energetica e per finire la questione Credit Suisse. C’è un’accelerazione degli eventi globali che richiede anche di agire sul piano locale. Le tensioni e gli scontri partitici si articolano su dinamiche complesse, di dimensioni globali, c’è chi vuole lavorare di slogan, ma questo non rende onore al sistema politico svizzero».

Questa forte polarizzazione è un problema per la politica del suo partito?
«Ha generato una dinamica che a medio termine sarà utile per il Centro e per il Paese. Il Centro, nelle varie elezioni cantonali, sta ottenendo risultati nel complesso positivi. Il presidente nazionale Gerhard Pfister, promotore di questo nuovo corso, è una persona straordinaria. Il sistema politico svizzero è condannato ad avere un centro. Adesso si tratta di fare in modo che anche la popolazione lo capisca. Nonostante tutte le crisi, la Svizzera non si è mai bloccata e non ha mai avuto una crisi istituzionale. Il sistema Paese va avanti e funziona».

Qual è stato per lei il momento più entusiasmante?
«Ogni sessione e seduta di commissione, a suo modo, lo è stata. Non ce n’è una uguale all’altra. Ricordo in particolare le revisioni della Legge sull’asilo del 2013 e del 2016, che sono state affrontate da prospettive completamente diverse. Come deputato proveniente da una zona di confine avevo parecchio da dire. Anche essere relatore commissionale della grande riforma dell’Esercito del 2015 e della nuova Legge sui “servizi segreti” è stato gratificante. Penso anche all’istituzione di un congedo per i coniugi che adottano un bambino, che possiamo chiamare “Lex Romano”. Credo infine di aver dato un impulso per una maggiore considerazione da parte del Governo e del Parlamento sul tema delle mafie e della criminalità organizzata. Il Consiglio federale, nel 2021, ha scritto chiaramente di aver sottovalutato il problema per decenni».

E quello negativo?
«Tra il 2016 e il 2018 ho frenato un po’ la mia attività a Berna per le note vicende comunali, concentrandomi su una sola commissione e rinunciando a quella della politica di sicurezza e a nuove responsabilità nel gruppo parlamentare». Si riferisce al tentativo andato a mal fine di diventare sindaco di Mendrisio mantenendo la carica a Berna. Ad anni di distanza si sente di fare autocritica? «L’esito dell’elezione a Mendrisio è stato chiaro, una lezione arricchente. Oggi mi dico: “Ho voluto fare troppo”. Capisco perché i cittadini hanno detto no al doppio ruolo».

Oggi la politica di milizia a Palazzo, dove sono attive varie lobby, come ad esempio quella sanitaria, esiste ancora?
«La lobby sanitaria non è la più potente, perché è un gioco a somma zero. Le sue componenti si annullano a vicenda: gli ospedali e medici non hanno gli stessi interessi delle casse malati, la farmaceutica ancora meno. La lobby più forte è quella agricola. Ne faccio fieramente parte anch’io, essendo dal 2016 presidente dell’Interprofessione svizzera della vite e dei vini svizzeri. Abbiamo ottenuto buoni risultati a favore del settore vitivinicolo svizzero».

Ma il sistema di milizia così funziona ancora?
«I Paesi in cui la politica viene fatta a titolo professionale non hanno né un sistema più performante del nostro né meno caro né meno esposto a dinamiche di lobbismo. A quest’ultimo livello ci sono chiare regole sulla trasparenza e i media generano attenzione pubblica. Sono legato a molte organizzazioni. Dialogando si ricevono degli input concreti. Non siamo in una bolla. Fondamentale è sapere che tutti gli atti parlamentari da me presentati e gli interventi in aula sono farina del mio sacco; ne vado fiero. È comunque difficile per i singoli parlamentari riuscire ad esercitare un’attività professionale. Ho avuto la fortuna di trovare datori di lavoro che mi hanno permesso di conciliare le due attività. Diciamo che per un giovane è più difficile essere politico di milizia, perché deve anche pensare al suo futuro professionale».

Il Consiglio di Stato ha deciso di rinunciare alle elezioni suppletive per il seggio ticinese vacante agli Stati. Rimane critico sulla scelta?
«Reputo la decisione del Governo un errore e uno sgambetto alle istituzioni. Si sapeva dall’anno scorso che si sarebbe arrivati a questo punto. C’erano i tempi e gli strumenti per preparare o l’annullamento o l’organizzazione dell’elezione».

Quattro anni fa ci fu la congiunzione delle liste fra PLR e PPD. Anche grazie a questo lei ha salvato il suo seggio. Ma per il PLR l’esperienza è stata negativa. I rapporti pessimi fra i due presidenti hanno fatto il resto. È stato gestito tutto male?
«Emerge ancora una volta la lontananza fra il Ticino e la politica federale. Le congiunzioni sono parte del sistema. Gli esercizi cominciano già a metà legislatura. Se vogliamo mantenere svizzero il Canton Ticino dobbiamo fare un clic mentale. In un sistema di elezione proporzionale, il fine è il risultato numerico di area. Non è necessariamente una condivisione programmatica (neanche fra PS e Verdi c’è). Si possono coinvolgere anche nuove forze in una dinamica di contrapposizione ai poli. Nel 2019 non siamo riusciti a far passare il messaggio. Dobbiamo guardare i numeri e chiederci se vogliamo farci comprimere da destra e sinistra. Io non lo voglio».

Una congiunzione la farebbe ritornare sui suoi passi?
«Assolutamente no. Vado perché credo fermamente nella capacità di poter lottare per il mantenimento dei due seggi e che la mia assenza generi una dinamica in grado di produrre un risultato migliore. Ci sono almeno due o tre persone che hanno tutte le carte in regola per farsi eleggere a Berna. In questi giorni le ho già chiamate».

In generale, sembra che in Ticino ci sia un forte interessamento a candidarsi per un seggio a Berna. Lo si vede nella Lega, nel PLR, molto presto certamente anche nel Centro. Un buon segnale?
«Un bellissimo segnale. Spero sia valorizzato dai media. La risposta migliore sono parlamentari che si fermano a 12, massimo 16 anni. Spero finisca la storia delle carriere politiche programmate e lineari. La popolazione vuole cambiamento. Vi è chi si ferma e chi parte, i secondi hanno bisogno di primi responsabili e pronti a prendere la decisione di lasciare».

Lei è stato eletto anche grazie al fatto di essere stato favorito dal discusso e famoso sorteggio dopo un risultato di perfetta parità di voti uscito dalle urne tra lei e Monica Duca Widmer. Si sente in debito con la fortuna?
«Alla base vorrei ricordare che ci fu una votazione strepitosa. Il pareggio è un risultato elettorale. Ci furono giovani giuristi che, quasi derisi, andarono fino al Tribunale federale, che anche sulla base del parere di un matematico ravvisò un errore nel sistema ticinese. Un algoritmo non dà le stesse chance a tutti. Solo il sorteggio lo fa. Poi sì, ci fu la fortuna, come in altre vicende della mia vita; penso alla famiglia. Talvolta ho avuto fortuna, altre volte no, come la perdita prematura di mio padre, che mi accompagna ogni giorno. Questa è la vita. Sono grato a chi ha sempre creduto in me e fiero di aver dato del mio alla Svizzera e al Ticino. Finisce l’impegno politico, non quello civico e sociale».

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