In Svizzera lavoro e stipendi migliori, ma c'è voglia di tornare in Italia

C’è fermento nel mondo dei lavoratori al confine tra Italia e Svizzera. Dopo le misure introdotte dal Governo Meloni con la riforma fiscale, i frontalieri si sentono minacciati, soprattutto per la cosiddetta «tassa sulla salute», il balzello fino a 2 mila euro all’anno che dovrebbe rimpolpare le casse del settore sanitario delle Regioni di confine, così da evitare la fuga all’estero di personale medico e infermieristico. Sulla questione si dibatte da giorni, tra sindacati che vedono il prelievo come illegittimo e semplici cittadini che hanno lanciato una petizione online per fermare quella che reputano una legge discriminatoria.
Se tanto rumore è stato fatto specialmente nel Comasco e nel Varesotto, la questione è arrivata pure in Valle d’Aosta, con un servizio di due pagine sull'edizione dell'11 gennaio 2024 del Corriere della Valle, settimanale di informazione della Diocesi di Aosta fondato nel 1950. Tra le colonne del foglio spiccano alcune testimonianze di frontalieri (quelli valdostani con rientro settimanale – si legge – dal 2002 al secondo trimestre del 2023 sono stati circa 1.800) e lavoratori con permesso B che si sono trasferiti in Svizzera proprio dalla Valle d’Aosta. A parlare sono un infermiere, un giovane broker e un 52.enne attivo nel campo dell’edilizia.
L’infermiere, dopo 10 anni di esperienza in un ospedale valdostano, racconta di come a spingerlo ad attraversare il confine siano state soprattutto le condizioni di lavoro: «In Valle, purtroppo, sei considerato un numero», afferma, spiegando di aver puntualmente ricoperto i turni in diversi reparti senza «alcun tipo di riconoscimento». L’uomo parla di formazione «inesistente», di recuperi ore e ferie «quasi impossibili», di organizzazione del lavoro «inesistente» e definisce «incommentabile» il trattamento del personale da parte della dirigenza: «Credo di aver lasciato tra ferie e recuperi almeno 250 ore, ovviamente non pagate. Spesso mi sono sentito come prigioniero dell’azienda», confessa. E in Svizzera? «Ogni cosa in più è riconosciuta, formazione costante, quadri turni di tre mesi in tre mesi e organizzazione e clima di lavoro ottimi».
C’è decisamente meno entusiasmo nelle parole del 52.enne attivo nel campo dell’edilizia, che spiega di aver scelto la Svizzera rispetto all’Italia unicamente per gli stipendi più alti. Anche se trovare un impiego oltre confine non è stato facile, afferma: «È difficile trovare un’occupazione se non si conosce qualcuno. L’occasione è arrivata grazie a un mio amico che lavorava là». L’uomo sottolinea come la sua vita sia tutt’altro che semplice: «Si lavora tra le 9 e le 10 ore, sia che piova o nevichi, col freddo e con il caldo. Non hai una vita, la tua famiglia non è con te e le aziende sono più grandi, quindi manca un po’ il lato personale». Per il 52.enne è una vita «più corretta per un giovane. È pesante per una persona della mia età. Si comincia a sentire la stanchezza fisica» nonché la mancanza di moglie e figli. E ancora: «Viviamo in un bungalow, è praticamente impossibile trovare una casa a un prezzo dignitoso», constata il lavoratore, concludendo: «Questo stile di vita può durare per un periodo, poi bisogna scegliere. Vorrei tornare a casa, anche se guadagnerò meno».
Il broker marittimo, 22.enne, è invece un possessore di permesso B trasferitosi da un anno a Losanna. Della sua «nuova casa» pensa: «La Svizzera è un Paese quasi perfetto. Ci sono tante possibilità professionali per i giovani. Qui tutto funziona», anche se, constata il 22.enne, non è tutto rose e fiori: «Si guadagna di più, ma tutto è proporzionato. Gli affitti, i beni primari, qualsiasi cosa è molto cara». Il giovane, ad esempio, racconta di pagare 1900 franchi al mese per un appartamento di 60 metri quadri. I tre lavoratori hanno tutti ammesso che se in Italia ci fossero le stesse condizioni lavorative, tornerebbero volentieri a casa, soprattutto per il legame con la loro terra, la famiglia e gli amici.
La fine del concetto di frontaliere? «Un menzogna»
Tornando alla tassa sulla salute, a far discutere animatamente in questi giorni è pure un collegato alla riforma fiscale che prevederebbe, secondo alcuni esponenti del Partito Democratico, l'abolizione, dal punto di vista fiscale, del concetto stesso di frontalierato con l’istituzione della cosiddetta «frazione quotidiana». Toni Ricciardi, storico delle migrazioni all’Università di Ginevra e deputato del PD, ha spiegato la questione al CdT in questi termini: «Introdurre il principio della frazione quotidiana per stabilire il regime fiscale cui un frontaliere dev’essere assoggettato significa, in parole povere, che non conterà più dove si lavora o dove si pagano le tasse, ma soltanto quante ore si trascorrono in Svizzera e quante in Italia. Banalmente: 8 ore in ufficio o in fabbrica e due ore di viaggio non sarebbero sufficienti, dato che le altre 14 ore della giornata si passerebbero in Italia. Così si smonta il concetto stesso di frontaliere». Insomma, l'Italia starebbe cercando di stringere ulteriormente il rubinetto sui lavoratori che si recano all'estero? Secondo l'eurodeputato leghista Alessandro Panza, le cose non starebbero proprio così. Il politico piemontese con un video su Facebook ha lanciato dure critiche: «Sulla questione frontalieri se ne stanno sentendo di tutti i colori. Addirittura qualche parlamentare di sinistra è arrivato a dire che con la nuova delega fiscale andrà a sparire la figura del frontaliere. Questa è una palla grande come una casa. È una menzogna gigantesca. Perché? Perché la figura del frontaliere è normata da un trattato internazionale fatto dall'Italia e la Svizzera. Un trattato internazionale non può in alcun modo essere modificato da una legge dello Stato, ma può essere modificato da un altro trattato internazionale. Questo è stato ratificato appunto l'anno scorso con il voto unanime di tutti i partiti».