Includere comunicando
Anno 2017. Sull’onda anche della viralità di un hashtag, #MeToo, l’intera società occidentale si interroga sulla sua effettiva capacità di garantire alle donne diritti fondamentali e giustizia sociale. Anno 2018. Greta Thunberg, 15.enne svedese, si rivolge ai leader mondiali dal palco dell’ONU. Complice portata, capillarità e interconnessione globale delle reti di comunicazione, dal web ai social media, diventa l’icona non solo dell’attivismo per l’ambiente, ma, più in generale, di una generazione che chiede ascolto.
Due esempi che sembrano confermare il contributo che la comunicazione e le sue nuove forme possono dare verso società più inclusive e partecipative, capaci di dare voce a più persone e di accrescere l’influenza dal basso, di reagire a iniquità e mancanze, di comporle nel segno di giustizia e pace sociale. Ma è proprio così? Ne parliamo con Luca M. Visconti, decano della Facoltà di comunicazione, cultura e società dell’USI, muovendo dall’obiettivo di sostenibilità ONU numero 16.
«Di per sé la “potenza potenziale” della comunicazione non è certo un fatto nuovo», indica Visconti. «Peculiari del nostro tempo sono però la sua scala, le interconnessioni, l’onnipresenza e il discorso sulla sua “democratizzazione”. Moltissime persone e organizzazioni hanno oggi accesso a mezzi che consentono loro di essere delle fonti di comunicazione per un pubblico virtualmente di massa. Questa trasformazione in soggetti comunicativi permette di esprimersi e contribuire a un cambiamento, ma ridefinisce anche il senso di chi o cosa siamo, non sempre senza costi».
«Peraltro», ricorda il professore, «l’impatto diretto della comunicazione sulla società non va sopravvalutato. Tra la comunicazione e l’esposizione al messaggio sussiste infatti un primo filtro, tra essere esposti e ascoltare un secondo, tra ascoltare e interiorizzare un terzo, tra interiorizzare e modificare i comportamenti, individuali o collettivi, un filtro ulteriore. #BlackLivesMatter, per menzionare un altro fenomeno di amplissima dimensione comunicativa, non è un “grido” comunicativo nuovo in tema di razzismo né, purtroppo, basterà a risolvere la questione dell’integrazione etnico-culturale».
Spinta senza direzione?
Senza dimenticare che la “spinta” può essere anche in direzione opposta, pensiamo a casi estremi come la propaganda terroristica via web e social. O ancora, in nessuna direzione. «La comunicazione può contribuire a far crescere valori e perseguire obiettivi come quelli di una società con più giustizia e pace sociale, anche nella piccola scala della nostra quotidianità, solo nel momento in cui diventa - o torna a essere - dialogo. Oggi l’impressione è di assistere a tanti flussi informativi e comunicativi paralleli o sovrapposti, che circolano senza incontrarsi davvero», osserva Visconti. «Perché dialogo possa esserci, necessitiamo soprattutto di argomentazioni, tragicamente assenti nell’attuale proliferare di “comunicazioni”. Sembra ormai sufficiente dire qualcosa, senza preoccuparsi della sua solidità. Ci parliamo addosso, disgiungendo la comunicazione dal contenuto e dall’argomentazione a supporto delle affermazioni. La volontà è prevalere sull’altro a prescindere, più che ascoltarlo e confrontarsi». È il lato oscuro anche di quella affermazione comunicativa dell’‘‘uomo qualunque’’ di cui si è detto. «L’esercizio di spirito critico verso il principio d’autorità è salutare; la squalifica a priori di ruoli e competenze in nome di un presunto diritto di dire qualunque cosa su qualunque argomento senza argomentazioni né competenze è la libertà di opinione che, anziché alimentare la pluralità, degenera in cacofonia».
Convergenza e distanza
«La comunicazione», continua il professore, «vive di un complesso equilibrio tra convergenza e distanza. L’eccesso di distanza, di eterogeneità dei punti di vista rende difficile costruire un terreno comune. D’altra parte, se la convergenza è troppa, continuiamo a “suonarcela e cantarcela” con chi la pensa come noi. Un rischio che in contesti digitali è noto come “camere dell’eco”, in cui le nostre opinioni risultano solo rafforzate in assenza di contraddizioni o critiche». Per spezzare questa monotonia del pensiero, convergenza e distanza, anziché opporsi in una perversa logica da “tifoseria” che cementa polarizzando e polarizza cementando, «devono implicarsi dinamicamente. La giusta distanza serve per esplorare il potenziale di altre posizioni e scoprire complessità e diversità delle nostre stesse opinioni. La giusta convergenza mantiene saldi quegli - forse pochi - elementi universali che permettono di trovare ancora un terreno di incontro comune tra le differenze - religiose, culturali, etniche, linguistiche, politiche, di opinione... -, scongiurando fratture incolmabili».
Quanto basta
Affinché la comunicazione possa davvero rendere più partecipativa e inclusiva la società, è necessario non definire l’esito di questo processo, ma solo le regole con cui condurlo. «Stabilire l’esito della comunicazione è forse l’errore più grosso che possiamo commettere, perché si finisce per cristallizzare dialogo, riflessione, dinamicità. Definire le regole della comunicazione, invece, permette di focalizzarsi sul “qui” del dialogo, sulla qualità dello scambio e, talvolta, sul piacere che si vive nel confronto». «La comunicazione passibile di migliorare le condizioni di vita individuali e collettive», conclude Visconti, «è ed è bello che sia un po’ come il “quanto basta” nelle ricette di cucina. Qualcosa che è difficile esprimere in una misura precisa, ma che fa la differenza se è presente nella quantità giusta».
Il pericolo di "ghetti" e fratture crescenti tra centri e periferie
Edilizia popolarre decontestualizzata e un’economia a doppia velocità non aiutano una società davvero inclusiva. Il punto di vista di tre esperti.
Una società in ‘‘pace’’ è una società senza eccessivi squilibri, capace di livellare o almeno comporre in modo armonico le differenze socioeconomiche.
La bellezza è giustezza
In questo le nostre città hanno spesso fallito, specie nell’edilizia popolare che anziché integrarsi ha generato molti ‘‘ghetti’’. «Questa edilizia è stata sovente risolta in termini solo quantitativi», indica l’arch. Martino Pedrozzi, che all’Accademia si occupa da anni del tema. «Chi ne è coinvolto - amministrazioni, architetti... - reagisce a un’emergenza producendo grandi numeri, con soluzioni generiche, decontestualizzate. I migliori progetti hanno invece saputo creare in un certo senso delle città in miniatura, con spazi d’incontro e servizi rivolti anche all’esterno e posti in continuità con lo spazio pubblico urbano, ciò attraverso cui passa la linfa di una collettività. L’edilizia residenziale è spesso vista come di ‘‘serie B’’. Rappresenta invece il vero sfondo del nostro vivere quotidiano e il necessario contesto regolare in cui possono spiccare gli edifici pubblici. Merita attenzione. E se mi si chiede se la bellezza può salvare il mondo dico di sì. La bellezza è infatti giustezza, coerenza, sintesi ed espressione di una società ispirata all’inclusione».
Centri e periferie
‘‘Ghetti’’ e fratture simili poggiano in ultimo su un divario socioeconomico sintetizzabile come quello tra centri e periferie. «Lo sviluppo sempre maggiore di servizi basati sulla conoscenza, che valgono il 40% del PIL mondiale, ha prodotto un’elevata domanda di lavoro specializzato e con essa una classe sociale medio-alta localizzata in prevalenza nei grandi centri urbani, dove si concentrano queste attività», indicano Raphaël Parchet e Lorenzo Barisone, professore e ricercatore USI in economia urbana. «Il divario centri/periferie si intensifica, creando un’importante questione di distribuzione della ricchezza che si riflette in opposizioni politiche e sociali. Una leva di riequilibrio, da usare con più decisione, è la perequazione fiscale. Un nuovo elemento è la diffusione del telelavoro: uno spostamento marcato di lavoratori qualificati verso periferie e zone rurali ridisegnerebbe la distribuzione territoriale del reddito, con benefici ma anche nuove sfide».