La «droga della Jihad» e i collegamenti con Lugano
Nel luglio del 2020 la Guardia di finanza aveva intercettato nel porto di Salerno quattro container provenienti dalla Siria in cui sono stati rinvenuti - nascosti dietro carichi di copertura quali macchinari di movimento terra e bobine di carta industriale - oltre 17 tonnellate di stupefacenti: 2,8 tonnellate di hashish e ben 14 tonnellate di «captagon». Quest’ultima è un’anfetamina detta anche «droga della jihad», in quanto è smerciata dall’Isis per finanziarie le proprie battaglie, nonché usata dai suoi affiliati (delle pastiglie erano ad esempio state rinvenute nelle abitazioni dei terroristi che avevano dato l’assalto al Bataclan in Francia).
Si era trattato del più grande sequestro di anfetamine al mondo e - a un anno di distanza - sono emersi importanti collegamenti con il Ticino. Con Lugano, per la precisione. All’inizio di agosto le autorità italiane hanno infatti arrestato un imprenditore italiano di 45 anni residente da diverso tempo nel Luganese. Imprenditore che gli inquirenti italiani sospettano essere il titolare di fatto (il suo nome non appare nel Registro di commercio ma risulterebbe come impiegato) di una società che si occupa di assistenza di terra per compagnie aeree e navali con sede in città. Società che aveva movimentato i container contenenti le ingenti quantità di droga. L’uomo è ora accusato di traffico internazionale di stupefacenti, un reato che se confermato potrebbe comportargli una ventina d’anni di carcere.
Le accuse
Secondo quanto ricostruito dall’indagine, l’imprenditore, assieme a uno spedizioniere italiano attivo a Salerno, avrebbe messo in atto «una serie di attività illecite volte ad organizzare il transito e il successivo trasferimento, attraverso lo scalo marittimo di Salerno, di consistenti carichi di sostanza stupefacente».
Nell’anno intercorso dal sequestro dei container (che nelle intenzioni poi avrebbero dovuto ripartire verso il Medio Oriente), i finanzieri hanno eseguito intercettazioni telefoniche e ambientali, oltre a mirati accertamenti bancari, che hanno permesso di risalire ai pagamenti, transitati estero su estero, dalla società di trasporto di Lugano allo spedizioniere doganale. Nello specifico, questi avrebbe provveduto all’eliminazione sia dalla documentazione commerciale sia dai container di ogni segno distintivo del luogo di provenienza del carico per evitare ispezioni doganali negli scali portuali intermedi, essendo la Siria inserita nelle «black list» del sistema doganale Schengen per i rischi connessi a spedizioni pericolose (come in questo caso). Nel dettaglio allo scalo marittimo salernitano venivano emesse da parte dell’agente doganale delle nuove polizze di carico della spedizione, mentre l’imprenditore residente nel Luganese avrebbe provveduto a una nuova fatturazione «utilizzando aziende commerciali compiacenti e nella sua piena disponibilità».
Le intercettazioni
Alcune delle intercettazioni degli inquirenti sono state rese note a mezzo stampa da «La Città», un quotidiano di Salerno che sta seguendo attentamente il caso.
In una di esse l’imprenditore afferma: «Devo garantire che la merce quando passa dalla Grecia non si rifà né origine (Siria) né destinatario cliente finale (Libia)». In un’altra dice: «Gli amici dell’altra parte mi dicono: “Fammi sapere a che punto siamo con il trasbordo dei container e con il flash truck perché da questa parte dobbiamo spedire altri container...”. Gli inquirenti sospettano infatti che la spedizione intercettata non fosse la prima (ne sono state identificate due con modalità pressoché identiche nei mesi precedenti), né l’ultima.
Le difese
Quanto alle posizioni dei due imputati, riporta sempre «La Città», lo spedizioniere si dichiara estraneo ai fatti, tanto che la segnalazione sarebbe partita da lui stesso e che avrebbe interrotto i rapporti con la società luganese già nel maggio 2020 perché sospettoso della modalità con cui si muoveva.
Quanto all’imprenditore residente nel Luganese da lungo tempo (già una decina d’anni fa aveva un paio di società a suo nome in città), ha affermato di non sapere che nei container ci fosse droga e di non conoscere personalmente il siriano con cui ha organizzato il trasporto, una persona che si sarebbe espressa in perfetto italiano. Per contro, avrebbe ammesso il cosiddetto tramacco.
Il tramacco
Tramacco è un termine tecnico con cui si indica il riversamento di una merce (in questo caso la droga) da un container all’altro. È una pratica fraudolenta per far perdere le tracce della provenienza della merce. La spiega lo stesso imprenditore in un’intercettazione: «Ci saranno etichette da togliere. Parlo del certificato di origine siriano. (...) L’origine deve essere Italia o Svizzera, no Siria, sennò in Grecia lo bloccano».
I presunti prestanome
La società con sede a Lugano riconducibile all’imprenditore è nata nel 2017 cambiando nome e ragione sociale a una società preesistente che si occupava dal 2009 di consulenza energetica. A mente degli inquirenti italiani, le due persone che formalmente la amministrano (e che non figuravano nella società precedente) non sarebbero che prestanome dell’imprenditore. La società ha anche un sito internet in cui si offre come «specialista nella gestione di crisi ed evacuazione di persone o merci da dove sono a dove devono andare».
Si indaga anche in Svizzera
Sulla vicenda restano ancora diversi punti oscuri, e oscuri sono anche diversi suoi protagonisti, al di là dei due indagati (l’imprenditore residente a Lugano si trova in carcere a Roma, dove era stato arrestato a inizio mese). Per indagare è stata costituita una squadra mista di investigatori italo-svizzeri composta dalla Guardia di finanza di Salerno e Napoli e da «investigatori elvetici». Da noi contattato, il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) conferma di aver ricevuto una richiesta di assistenza giudiziaria dall’Italia e che questa «è in fase d’esecuzione». A delegargliela è stato l’Ufficio federale di giustizia che ci ha riferito che al momento non può fornire maggiori informazioni al riguardo.