La stampante 3D che allevia il problema degli scarti inerti
L’obiettivo è risolvere un problema locale (e per locale intendiamo ticinese). Le competenze messe in campo per riuscirci sono però nazionali (e per competenze intendiamo «cervelli»). I mezzi, infine, sono internazionali.
Qual è il problema? Lo smaltimento dei rifiuti edili e degli scarti di cava. Qual è la soluzione? Il progetto si chiama Innosuisse REBJP – Binder Jetting for direct application of recycled materials, ed è stato condotto dal Politecnico federale di Zurigo (ETH) in collaborazione con l’Istituto scienze della terra della SUPSI, Dipartimento ambiente costruzioni e design, di Mendrisio. I due istituti, in collaborazione con altri partner, hanno messo a punto una stampante 3D in grado di produrre elementi architettonici dagli scarti inerti.
Per ora si tratta di un prototipo. Ultimato peraltro da pochissime ore: «Abbiamo finito staonotte», ha confessato Pietro Odaglia, dell’ETH e «papà» della stampante, illustrando i dettagli della tecnologia. Le sue applicazioni potenziali sono tuttavia molteplici e aprono la strada a ulteriori collaborazioni e sviluppi. Il lavoro quindi non è finito. Il completamento del prototipo però è motivo d’orgoglio. Per questo gli addetti ai lavori hanno illustrato progetto e stampante «rivoluzionaria, perché usa materiale di scarto» nella suggestiva cornice delle cave di Arzo. «Il disegno è nato nel 2019 in un corridoio del Politecnico di Zurigo – ha premesso Filippo Schenker della SUPSI –. Ho incrociato Vera Voney (ricercatrice dell’ETH, ndr) e abbiamo iniziato a parlare dei rispettivi progetti in corso. Noi ci stavamo concentrando sul riutilizzo degli scarti inerti in campo edilizio, loro di una stampante 3D a basso impatto ambientale. Ci siamo detti che forse le due cose potevano diventare una cosa sola».
Da quel giorno di progressi ne sono stati fatti molti. E si è passati da una stampante di piccolo formato al prototipo attuale, in grado di produrre oggetti di 80 centimetri per 120. Un processo di stampa dura 12 ore, poi servono 12 ore almeno di riposo.
Ma come funziona? La base di partenza sono gli scarti di cava. Nelle fasi di studio è stato utilizzato materiale proveniente da tutto il Ticino. In queste settimane però la pietra di scarto proviene dalle cave di Arzo. La location della presentazione non è quindi stata scelta a caso: la stampante è infatti stata collocata temporaneamente alla cava grande di Arzo (in collaborazione con il patriziato locale). Servono scarti di piccole dimensioni, per questo si parte da una fase di selezione con il setaccio a una di frantumazione. La «polvere» che ne risulta viene poi combinata con il legante: il metacaolino. A quel punto entra in funzione la stampante 3D che crea l’elemento architettonico. Per ora ci si concentra su pezzi «strutturali», ma le applicazioni potrebbero essere innumerevoli, sfociando anche nel campo artistico e ornamentale.
Il lavoro, come scritto, non è finito. La tecnologia mostra però una sorta di via da seguire. «Questa stampante da sola non risolve i problemi ticinesi, ma è un tassello – ha riassunto Schenker –. Se ce ne fossero 10 potremmo smaltire parte del materiale che si accumula». Il prossimo passo è trovare ulteriori partner per automatizzare ulteriormente il prototipo e per la sua commercializzazione.