L'intervista

Le riflessioni dall'alto di Maurizio Cheli: «Lo Spazio è stato la mia casa»

Ospite del Congresso immobiliare a Lugano, giovedì, l'astronauta italiano ha ripercorso assieme al Corriere del Ticino le tappe di una lunga, lunghissima carriera
Gli astronauti Umberto Guidoni, Maurizio Cheli, Andy Allen, Scott «Doc» Horowitz, Jeff Hoffman, Franklin Chang-Diaz e Claude Nicollier al rientro sulla Terra dopo la missione STS-75 il 9 marzo del 1996. © KEYSTONE
Marcello Pelizzari
28.02.2024 09:15

Un astronauta ospite del prossimo Congresso immobiliare, in programma domani, giovedì 29 febbraio, a Lugano e organizzato dalle associazioni di settore. Per giunta, con la speculazione edilizia quale tema portante. Sulle prime, potremmo pensare a un errore o, addirittura, a una barzelletta. E invece, è tutto vero: Maurizio Cheli, 64 anni, fra i pesi massimi dell'esplorazione spaziale, sarà effettivamente in sala. E, soprattutto, porterà sul palco la sua lunga, lunghissima esperienza di pilota collaudatore e, appunto, astronauta. Nell'attesa, lo abbiamo intervistato. Proprio per capire quanti e quali punti di contatto ci sono fra questi mondi apparentemente così lontani. 

Una laurea in Scienze Aeronautiche, un'altra in Ingegneria Aerospaziale e, ancora, una in Scienze Politiche e un Master in Business Administration. Astronauta, aviatore e collaudatore italiano, lei può dire di aver «vissuto» per 15 giorni, 17 ore e 41 minuti nello Spazio, a bordo dello Space Shuttle Columbia in occasione della missione STS-75. Partiamo subito con una considerazione banale: che effetto fa chiamare casa un luogo del genere?
«Faccio una premessa: se mi hanno invitato, è perché dalla mia esperienza e dal mio vissuto in orbita si possono imparare tante, tantissime cose che, poi, uno può applicare qui sulla Terra. In ambiti anche diversi dal mio. Credo, in particolare, che nell'ambito di un Congresso immobiliare possa emergere, con forza, il fatto che nello Spazio bisogna lavorare come una squadra, darsi delle regole e rispettarle, fare una pianificazione. Fermo restando che gli imprevisti, anche lassù, esistono. E possono essere di vario genere».

Di speculazione, anche nello Spazio, si parla sempre di più ultimamente. Della serie: i privati, da un lato, hanno rilanciato e ravvivato l'esplorazione spaziale ma, dall'altro, potrebbero rovinare un ambiente sin qui considerato immacolato. Non a caso, si parla di viaggi per turisti, colonizzazioni di altri pianeti e nello specifico Marte e, fra le altre, sepolture sulla Luna. Non c'è più limite al business, par di capire. Che ne pensa?
«L'avvicinamento, classico, allo Spazio è avvenuto per migliorare le nostre conoscenze e per rispondere a domande (anche) esistenziali. Da dove veniamo? Dove stiamo andando? Sono domande che l'intera umanità si è posta e continua a porsi. Parallelamente, c'è chi ha ideato delle attività economiche. Ma non è che uno, dall'oggi al domani, possa inventarsi chissà che cosa. L'esplorazione spaziale, infatti, richiede una grande pianificazione di risorse e mezzi tecnici. Vale per le Agenzie istituzionali e, in modo analogo, per i privati. Una start-up, è vero, può nascere pure in un garage. Lo Spazio, per contro, ha una dimensione in termini di investimenti di tutt'altro tipo». 

Eppure, il problema dello sfruttamento dello Spazio esiste. È già realtà. Pensiamo al business dei satelliti
«Certo, in particolare a livello di orbita bassa. È vero. Detto ciò, anche in questo caso servono risorse e pianificazione. E bisogna quantomeno intravedere un ritorno economico. Perché, altrimenti, attività del genere avrebbero vita brevissima».

Diciamo che lo Spazio è grande. Ma gli spazi, a bordo, sono molto limitati. Per questo, sì, ci vuole un alto grado di sopportazione quando si vola

Che giudizio dà, allora, a Elon Musk? Come detto, ha permesso alla NASA di tornare a sognare ma, allo stesso tempo, non ha fatto mistero circa i suoi piani di colonizzazione per Marte. Genio, visionario o cos'altro ancora?
«Indubbiamente ha molti pregi. E, forse, pure qualche difetto. Quello che fa e quello che dice, in estrema sintesi, è in linea con il personaggio. Ci sta, insomma, che di tanto in tanto lanci qualche boutade o vada un po' lungo. Come la storia di portare un milione di coloni su Marte. Tutto è possibile, per carità, ma sicuramente io non vivrò abbastanza per vedere realizzarsi un progetto simile».

Lei ha parlato di fare squadra e, forte di una laurea in Scienze Politiche, ha sicuramente gli strumenti necessari per commentare quanto sta accadendo sulla Terra. Dalla guerra in Ucraina a quella fra Israele e Hamas, stiamo vivendo tempi complicati. Quando si trovava lassù, per contro, quanto le sembravano stupidi i motivi che, alla fine, portano gli uomini a uccidersi?
«Fra l'altro, a bordo della mia missione c'era pure il vostro connazionale Claude Nicollier. Anche lui specialista di missione, proprio come me. Esperienze come quella, fatte le dovute premesse, sono chiaramente possibili solo se alla base c'è una forte cooperazione internazionale e, in maniera analoga, se tutti vivono lo Spazio come esplorazione e scoperta. Gli Stati Uniti, pur avendo una forza incredibile in questo settore, non possono fare tutto da soli. Hanno bisogno di partner. Era così ai miei tempi, sullo Shuttle. Sarà così anche per il programma Artemis, che ci riporterà sulla Luna. Parliamo, appunto, di collaborazioni internazionali».

Visti gli spazi, anche angusti, di uno Shuttle, collaborare per voi era la sola opzione sul tavolo. No?
«Beh, diciamo che lo Spazio è grande. Ma gli spazi, a bordo, sono molto limitati. Per questo, sì, ci vuole un alto grado di sopportazione quando si vola. C'è una contiguità fisica che difficilmente sperimenteremmo sulla Terra, se non per pochi istanti. Ma qui, appunto, torniamo al tema della collaborazione internazionale fra Paesi. Se fossi stato da solo e mi fosse stato chiesto di governare un mezzo come lo Shuttle, non ce l'avrei fatta. Un equipaggio è tale perché si rende conto, collettivamente, che l'unico modo per ottenere risultati, in ultima ratio sopravvivere, è stare assieme. Collaborare. Il fine dell'esplorazione spaziale, d'altro canto, è talmente grande che uno automaticamente abbandona il proprio ego. Fare un passo indietro, a volte, e senza scomodare una citazione storica, è più importante che fare un passo avanti».

Dallo Spazio, guardando la Terra, bellissima e unica, ti rendi conto che quaggiù litighiamo davvero per delle baggianate. Dovremmo, tutti, concentrarci sull'essenza delle cose

Che cosa resta, allora, tornando letteralmente con i piedi per Terra?
«Resta la capacità di vedere le cose da una prospettiva differente. Dallo Spazio, guardando la Terra, bellissima e unica, ti rendi conto che quaggiù litighiamo davvero per delle baggianate. Dovremmo, tutti, concentrarci sull'essenza delle cose. È una lezione difficile, questa, soprattutto nel mondo di oggi. Ma abbiamo il dovere di portarla avanti».

Earthrise, la fotografia della Terra scattata il 24 dicembre 1968 dalla Luna dall'astronauta della NASA William Anders, all'epoca alimentò la volontà di proteggere la bellezza del nostro pianeta. Non sempre ci siamo riusciti, purtroppo.
«Dallo Spazio, con i miei occhi, ho potuto vedere molto bene come l'uomo ha cambiato la morfologia del pianeta. E parliamo del 1996. Al contempo, io e i miei colleghi ci siamo subito resi conto che lo Shuttle era l'unica cosa che ci separava dal vuoto cosmico. Il che ci spinse a prendercene cura in maniera maniacale. Proprio perché non avevamo alcun piano B. Allo stesso modo, possiamo immaginarci la Terra come una navetta. Popolata da qualche miliardo in più di persone. E, come dicevo, forse dovremmo tutti comprendere che alcuni aspetti trascendono la dimensione umana. Analizziamo tutto partendo da noi stessi come metro per giudicare. Quando, in realtà, siamo ben poca cosa rispetto all'immensità dell'Universo o del nostro pianeta».

Ma com'è vedere la Terra da una posizione così privilegiata?
«Quella visione mi ha ripagato di tutti i sacrifici fatti per poter arrivare in orbita. D'altronde, non conosco astronauti dal percorso facile o fortunato. Per raggiungere un determinato livello sono necessarie ore e ore di lavoro intenso. E di attività anche routinarie e apparentemente scontate. Ma necessarie. Sempre pensando all'ottica di dover sopravvivere in un ambiente estremo».

Il fil rouge della sua vita, tuttavia, sembra legato anche alla capacità di osare. Di andare oltre. Di guardare il cielo e di vedervi una sfida e una possibilità, non un limite. È così?
«Sì, è così. Ed è forse l'insegnamento più grande che potrei trasmettere. Darsi nuovi obiettivi. Ogni giorno. Provare a raggiungerli e, una volta raggiunti, ripartire con altre sfide. Ne abbiamo bisogno, in quanto esseri umani. Il sale della vita, in fondo, è questa cosa qui: lavorare per raggiungere qualcosa. L'ho fatto per tutta la vita. Carpendo il meglio da ogni esperienza. Per dire: quando ho scalato l'Everest, nel prepararmi ho seguito metodi di addestramento utilizzati per diventare pilota militare e collaudatore. Avevo, insomma, delle fondamenta. E a proposito di fondamenta: alla base c'è sempre stata anche una forte, fortissima passione».

Maurizio Cheli immortalato per la missione NASA. © Wikipedia
Maurizio Cheli immortalato per la missione NASA. © Wikipedia