Locarno, fu tragedia o negligenza?

Morire di parto nel terzo millennio. Perdere la vita dopo aver dato alla luce due bambine sotto gli occhi di medici specializzati, con un carico d'esperienza decennale alle spalle. In una struttura all'avanguardia e dotata delle tecnologie più efficienti. Sembra impossibile, eppure è successo. Nel 2008, a una donna di soli 39 anni. Perché? Si è trattato di un tragico destino o di un errore imputabile alla negligenza? È la risposta - umanamente delicata quanto tecnicamente difficile da trovare - che dovrà emergere dalla Pretura penale di Bellinzona, al termine del processo aperto ieri nei confronti del ginecologo locarnese accusato di omicidio colposo per la morte di una donna dopo un parto cesareo gemellare, alla Clinica Santa Chiara.
Quella in questione è una storia triste, che si è conclusa con il decesso di una paziente divenuta madre da pochissime ore. Una storia i cui protagonisti invocano chiarezza: i famigliari da un lato, che hanno perso una moglie, una mamma, una figlia; lo specialista dall'altro che, difeso dall'avvocato Carlo Borradori, contesta l'accusa a suo carico ipotizzata dalla Procuratrice pubblica Marisa Alfier nella convinzione di non aver commesso la negligenza imputatagli. E questo per una questione etica, non certo per l'entità della pena proposta, che ammonta a 70 aliquote giornaliere sospese oltre a una multa di seimila franchi. Non è questo che conta per il ginecologo, che intende invece dimostrare - grazie anche alla perizia realizzata da un esperto dell'Ospedale universitario di Ginevra - la bontà del suo operato. Dal canto suo la pubblica accusa lo ritiene colpevole di una serie di gravi errori di valutazione, relativi in particolare ai tempi stabiliti per operare la donna che, in seguito al parto, subì l'asportazione dell'utero a causa della mancata espulsione di una parte della placenta, a sua volta origine di un'emorragia interna. A sostegno di questa ipotesi, le conclusioni della perizia giudiziaria commissionata dalla Procura a due esperti dell'Università di Genova: «Una diagnosi e una terapia più tempestive avrebbero garantito maggiori probabilità di evitare il decesso». Per l'accusa, quindi, non c'è dubbio: gli errori commessi dallo specialista furono fatali alla paziente.
Dove sta la ragione? Non sarà facile stabilirlo. Lo si è compreso fin da subito, ieri, quando la giudice Sonia Giamboni Tommasini ha dato il via alla ricostruzione dell'accaduto con l'interrogatorio dell'imputato. Sotto la lente stanno infatti eventi verificatisi in pochissime ore, questioni di attimi, di momenti frenetici, di valutazioni e decisioni delicate prese sulla base di una professionalità e di una conoscenza maturate in oltre trent'anni di professione. Ma pur sempre umane. Non c'è nulla, qui, di matematicamente giusto o sbagliato. Si sarebbe dovuto procedere diversamente? L'asportazione dell'utero avrebbe dovuto essere effettuata immediatamente, senza aspettare l'ora e mezza che invece si attese cercando di stabilizzare in altro modo le condizioni della paziente? Esami mirati e trasfusioni di sangue più tempestive le avrebbero salvato la vita? Spetterà alla giudice stabilirlo, sulla base di approfondite valutazioni tecniche. Una parte delle quali è stata esposta ieri dall'imputato e da due testimoni, l'anestesista e un'infermiera prosciolti nel 2010. Mentre martedì toccherà ai periti, i cui interventi saranno seguiti da quelli della pubblica accusa, della difesa e degli accusatori privati, rappresentati dall'avvocato Brenno Canevascini. Intanto, ieri, il marito della donna è intervenuto, raccontando il dolore e l'angoscia di quella mattina del 25 marzo di sette anni fa: «Più passava il tempo e più capivo che le cose non stavano andando come dovevano. E alla fine, al momento del trasferimento di mia moglie al Cardiocentro di Lugano (ndr: dove morì in seguito a un arresto cardio respiratorio), il medico stesso mi confessò che le possibilità di una sua sopravvivenza erano praticamente nulle. Purtroppo non si sbagliava».