Lugano e tutto quel cash incontrollato
«Bisogna prendere atto che, nella piazza finanziaria luganese, ci sia un giro di contante del genere. Non ci si può non preoccupare». «Un palese abuso della piazza finanziaria e un aggiramento delle misure di controllo». È con queste parole che la giudice del Tribunale penale federale Fiorenza Bergomi ha iniziato a leggere la sentenza che ha portato alla condanna di un gioielliere di Lugano per riciclaggio di denaro, carente diligenza in operazioni finanziarie e attività senza autorizzazione da parte della FINMA (l’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari). Una sentenza - lo diciamo subito - che ha scagionato l’imputato da diverse altre accuse ma che fa riemergere un cronico problema della piazza finanziaria (in senso allargato) ticinese: l’arrivo di capitale illecito, spesso in odore di mafia. E mentre gli istituti di credito - allentato il segreto bancario - si sono dotati di maggiori strumenti di controllo, altri operatori - più o meno improvvisati - continuano o a prestarsi attivamente ad attività di riciclaggio (vedasi per esempio il caso «Swift My Money» di cui abbiamo riferito ieri) o a eseguire verifiche inadeguate sulla provenienza dei fondi. E a volte a non eseguire controlli del tutto.
In aula c’era un grossista di gioielli e diamanti, italiano sulla quarantina, accusato di aver riciclato denaro per conto di Filippo Magnone, già condannato in Svizzera e in Italia per aver a sua volta ripulito a Lugano i soldi di Vincenzo Guida e Alberto Fiorentino, ex esponenti della «Nuova Famiglia» e a capo a Milano di quella che i media italiani hanno soprannominato «La banca della camorra». Prestavano soldi - a interessi elevatissimi - a imprenditori in difficoltà e poi minacciavano di morte chi non riusciva a ripagare il debito.
Il selfie e il proscioglimento
Il gioielliere era accusato dal procuratore federale Sergio Mastroianni di aver comprato, per conto di Magnone e attraverso un conto cifrato delle Bahamas, 350.000 dollari in diamanti alla borsa delle pietre preziose di Tel Aviv. «Importo facente parte - si legge nell’atto d’accusa - della somma di 28,3 milioni di euro quale provento dei reati di associazione a delinquere (...) commessa dai Magnone». La Corte, non convinta dalle prove portate a processo dal Ministero pubblico della Confederazione, ha però scagionato da questa imputazione il gioielliere. «Non è provato che sia stato lui ad acquistare i diamanti - ha spiegato Bergomi - e, anzi, le informazioni ottenute in via rogatoriale da Israele sembrano affermare il contrario». Diverso invece il caso dei 639.000 franchi in contante - sempre dei Magnone - depositati in due cassette di sicurezza ubicate nel caveau della sua società. L’imputato - difeso dall’avvocato Luca Marcellini - si è sempre dichiarato innocente, spiegando di non essere a conoscenza del contenuto delle cassette di sicurezza. La giudice Bergomi si è invece detta convinta del contrario. Per due motivi. Il primo è che Magnone stesso ha confermato agli inquirenti che il gioielliere lo aveva aiutato a inserire i soldi nel caveau. E poi perché il procuratore Mastroianni, in aula, ha mostrato una foto piuttosto incriminante: un selfie che immortalava i due, trionfanti, davanti a una montagna di banconote. «Credevo fossero false», ha tentato di giustificarsi l’imputato. «Non è credibile», ha sentenziato la giudice. «E non poteva non sapere che quel denaro era provento di reato». E quell’importo, 639.000 franchi in contanti divisi in due tranche, non poteva non destare sospetti.
Le altre imputazioni
In virtù dei parziali proscioglimenti, rispetto a quanto proposto dal procuratore federale (nove mesi sospesi) la Corte ha optato per unapena pecuniaria (160 aliquote da 200 franchi, sospese). Confermata la condanna per carente diligenza in operazioni finanziarie e per aver operato senza l’autorizzazione della FINMA.
Verso il ricorso
È probabile che il Ministero pubblico della Confederazione decida di ricorrere. E non è escluso che lo stesso faccia anche la difesa.