Lugano: gli anarchici «andati via» e quelli di oggi

La data della conferenza è uno scherzo del destino. Era prevista lo scorso settembre, poi è stata rinviata. Due volte. Così, mentre a Lugano imperversa il dibattito sull’autogestione, la Biblioteca cantonale propone, per oggi alle 18, la presentazione del libro Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani. La canzone di Pietro Gori è stata intonata durante gli ultimi cortei, ma cosa è rimasto di quel movimento fiorito a fine Ottocento sulle rive del Ceresio? «Sono cambiate tante cose» premette Maurizio Binaghi, storico e insegnante al Liceo cantonale Lugano 1. Tante, ma non tutte.
Dalla filosofia agli attentati
Michail Bakunin, filosofo e rivoluzionario russo, è stato un personaggio chiave per l’anarchismo in Ticino, dove ha trascorso i suoi ultimi anni di vita. «Sono un amante fanatico della libertà – diceva – ma non la libertà limitata e regolata dallo Stato. No, io mi riferisco all’unico tipo di libertà che merita questo nome: quella che non conosce restrizioni se non quelle determinate dalle leggi della nostra personale natura». Politicamente, tale pensiero era in contrapposizione con il socialismo marxista. «Quest’ultimo puntava a creare un partito che guidasse la rivoluzione e contemplava la possibilità di una “dittatura del proletariato” – spiega Binaghi – mentre l’anarchismo rifiutava ogni struttura e si basava sulla spontaneità delle masse, con l’obiettivo di creare una società in cui lo Stato non esistesse e ognuno esercitasse la propria libertà». Il problema di questo approccio era la difficoltà di conciliarlo con il bisogno di organizzarsi: come movimento e come società. «A Lugano dopo Bakunin ha trovato rifugio Errico Malatesta, tra i più importanti anarchici italiani, e nel 1891, a Capolago, si è tenuto un congresso in cui è stato fondato un abbozzo di “partito” anarchico: un’organizzazione a forma federativa che prevedeva un sistema di deleghe, a rotazione, senza che le decisioni fossero vincolanti». Non c’era dunque un unico referente, come non ce l’ha oggi il Molino. Ad alcuni anarchici, però, il compromesso non è andato giù. «Gli antiorganizzatori negano la validità di qualsiasi struttura formale, perché in essa vedono i primi segni dell’elitismo e della burocrazia». Così, mentre nel 1891 nasceva la Società Humanitas, che può essere ritenuta la prima forma di autogestione in Ticino, in tutta Europa il movimento entrava in una fase cruciale: quella degli attentati individuali, compiuti da persone che colpivano le autorità per accendere la fiamma della rivoluzione. Uno di loro, Sante Caserio, passato anche da Lugano, assassinò l’allora presidente francese Sadi Carnot. Questo e altri fatti cambiarono la percezione dell’anarchismo. «Il pensiero di Malatesta e Bakunin iniziò ad essere visto come un virus che entrava nella mente delle persone disperate e le spingeva a commettere crimini, e le autorità reagirono. A Lugano, che era considerata l’università dell’anarchismo, furono espulsi diversi anarchici. Da lì Addio Lugano bella».

La domanda chiave
Le esperienze anarchiche di oggi, tuttavia, sono legate più a un altro periodo. «Sono un riflesso dei movimenti degli anni ‘60, quando si coltivava la speranza di un cambiamento sociale partendo dal basso e si denunciavano l’isolamento giovanile e la carenza di spazi d’incontro. Ad esempio occupando stabili abbandonati, creandovi delle piccole società alternative e dei luoghi di aggregazione». Le idee sono via via cambiate, ma alcuni principi sono rimasti. «Di uguale al passato – aggiunge Binaghi – c’è anche l’approccio dello Stato, che nella difesa di un altro principio, la legalità, può arrivare alla repressione di questi movimenti. La domanda da porsi oggi è: una realtà autogestita come il Molino può avere una funzione sociale valida?». Il professore ritiene indispensabile che, con lo sforzo delle parti, si possa arrivare ad una risposta affermativa e condivisa dalla collettività. Un traguardo fondamentale per quello che dovrà essere, o vorrà essere l’autogestione in Ticino d’ora in avanti.