Malgrado i problemi alla schiena per l'AI è una falsa invalida
«Falso invalido». Un termine che evoca immediatamente una persona che sta bene ma finge di stare male per un guadagno personale. Un’immagine che, comunque vada il processo cominciato oggi di fronte alle Assise correzionali presiedute dal giudice Amos Pagnamenta, non rispecchia in alcun modo la situazione su cui la Corte dovrà esprimersi. Alla sbarra vi è infatti una 63.enne portoghese con una storia trentennale di gravi e comprovati problemi alla schiena, accusata di truffa aggravata per ingannato l’Ufficio assicurazione invalidità per 15 anni, incassando indebitamente 350.000 franchi (meno di 25.000 franchi l’anno). Con lei sul banco degli imputati vi è anche un 72.enne svizzero accusato di esserle stato complice in alcune fattispecie. Il procuratore pubblico Daniele Galliano ne chiede la condanna a rispettivamente 16 e 6 mesi sospesi, mentre i rispettivi difensori - avvocati Sebastiano Paù-Lessi e Marco Garbani - il proscioglimento.
Quella discrepanza c’è?
La questione al cuore del dibattimento è a sapere se l’imputata stesse o meno lavorando come cameriera in un ristorante del Luganese malgrado percepisse una rendita d’invalidità al 100% dal 2000. Per la pubblica accusa sì: lo testimonierebbero chi con lei ha lavorato, delle fotografie pubblicate sui social e un rapporto investigativo al termine di due settimane di vigilanza ordinata dall’Ufficio AI, allertata nel 2023 dall’Ispettorato sul lavoro: «Nessuno nega che abbia importanti problemi di salute, ma vi è una discrepanza fra quanto ha dichiarato all’AI e quello che faceva nell’esercizio pubblico. Se l’AI l’avesse saputo, le avrebbe sospeso e probabilmente soppresso la rendita. A mente dell’accusa era impiegabile al 100%».
Di parere diametralmente opposto la difesa. Nella sua accorata arringa, Paù-Lessi ha ricordato come gli specialisti siano tutti concordi negli anni a riconoscere i gravi problemi di salute della donna, che peraltro sarebbero «peggiorati costantemente negli ultimi vent’anni», come si evince da «una cartella medica composta da centinaia di pagine»: «La mia assistita era perfettamente in buona fede e quello che faceva non era lavoro, ma un’attività per fuggire alla depressione». In effetti, che potesse svolgere «piccoli lavori fisicamente non probanti per preservare la sua salute psichica a scopo occupazionale e non di lucro» l’aveva prescritto il suo medico curante già una decina d’anni fa. Il problema è che quella decisione all’AI non è mai arrivata.
La lettura dei dettagli
Il processo è farcito di dettagli come quello appena citato e di un diverso apprezzamento dei fatti. Un altro esempio: l’imputata effettivamente non ha mai ricevuto uno stipendio per il lavoro al ristorante, di cui però il marito era comproprietario. Per l’accusa però il vantaggio è indiretto, perché così non vi era bisogno di assumere una cameriera in più. Vi sono poi foto agli atti in cui fa sforzi fisici che in teoria non potrebbe compiere; foto che hanno «stupito» il suo medico curante, che la segue da un trentennio. Ma che valore dare a quello stupore? Per l’accusa, è il sentimento di chi si sente a sua volta tradito dal proprio paziente; per la difesa, di chi constata che il proprio paziente ha fatto qualcosa che sapeva che non doveva fare, a discapito della sua salute.
Investigazioni contestate
Per questi e altri motivi la situazione è tutt’altro che limpida e la definizione di «falso invalido», anche in caso di condanna, è in questa vicenda fuorviante. E anche la posizione del complice non appare chiara: il 72.enne, comproprietario dell’esercizio pubblico, è accusato di aver aiutato l’imputata a compilare falsamente almeno un formulario AI, benché sapesse che l’imputata in realtà lavorava, ma tale lettura della situazione è stata contestata in più punti dall’avvocato Garbani. Quest’ultimo ha poi sollevato un punto riguardo l’investigazione voluta dall’Ufficio AI, affermando che è stata assegnata a due persone che non sarebbero autorizzate a svolgere tale mansione. Lo stesso legale ha poi aggiunto di sapere che tale contestazione nell’ambito del caso specifico è accademica, ma di averla sollevata per evitare che ricapiti in futuro.