«Mancanza di vocazione? No, in Ticino c'è tanta voglia di aiutare»

Oggi, martedì 5 dicembre, in tutto il mondo si celebra la Giornata internazionale del volontariato. Un momento di riflessione importante, istituito ufficialmente nel 1985 dalle Nazioni Unite e oramai prossimo al traguardo dei quarant’anni. Ma che cos’è un volontario? Chi è, soprattutto? «Chi assume un impegno o si presta a operare, a collaborare, a fare qualcosa di propria volontà, indipendentemente da obblighi e da costrizioni esterne» recitano i dizionari. In realtà, oltre alle definizioni c’è di più. Molto di più. Abbiamo cercato di capirlo con Simona Salzborn, vicepresidente della Sezione Sottoceneri di Croce Rossa Svizzera e a sua volta volontaria.
Signora Salzborn,
iniziamo da una considerazione piuttosto banale: dal 1985 a oggi quanti e quali
passi sono stati fatti e, di riflesso, quanto resta ancora da fare nell’ambito
del volontariato?
«Il passo più importante, indubbiamente, è stato il passaggio da un
volontariato basato, scusate il gioco di parole, sulla buona volontà delle
persone a un volontariato molto più professionale e organizzato. Oggi, infatti,
sono richieste competenze di presa a carico maggiori rispetto al passato,
quando il volontariato era legato magari alla parrocchia o alla bancarella in
piazza. Da anni, beh, il volontariato si declina in modi differenti. E
comprende situazioni complicate, come l’assistenza a un malato o ai migranti».
C’è stata una
presa di coscienza collettiva da parte della società, dunque?
«Intanto, va sottolineato che in questi quasi quarant’anni lo Stato, in
Svizzera, si è reso conto dell’importanza del volontariato. Di quanto sia prezioso
come risorsa. Anche in termini economici. Il volontariato, oggi, affianca lo
Stato».
Venendo al
locale, nella sola Lugano le associazioni che lavorano con i volontari sono
circa ottocento. Quella del volontario, insomma, non è più una figura-ombra.
«Sicuramente, senza i volontari non si va da nessuna parte. La cosa
interessante è che, ora, anche il mondo del lavoro, mi riferisco a banche, ditte
e imprese, prestano i loro dipendenti per effettuare giornate di volontariato.
Succede anche da noi in Croce Rossa. Significa che la società, effettivamente,
si è resa conto che il volontariato è un valore aggiunto. E che per i
dipendenti, soprattutto, è qualcosa che può fare curriculum. L’ideale, per
chiudere il cerchio, è che il volontariato venga considerato un fattore
determinante in fase di assunzione. Che, insomma, un’azienda in cerca di nuovi
collaboratori privilegi chi ha prestato servizio con noi o con altre
associazioni. E questo perché chi ha prestato servizio ha sviluppato competenze
sociali che, magari, altri non hanno».


Venendo alla
Croce Rossa e in particolare alla Sezione Sottoceneri: qual è il vostro
rapporto con i volontari? Soprattutto, state notando una sorta di «mancanza di
vocazione» e quindi una difficoltà nel reperire volontari per le vostre
attività?
«Le cose vanno benino, diciamo. I bisogni sono tanti, la società invecchia e le
richieste sono diverse. Noi, come sezione Sottoceneri, siamo circa 360, 370
volontari. Se ne avessimo un centinaio in più, evidentemente li impiegheremmo
tutti. Ma i numeri attuali, davvero, sono soddisfacenti. E ogni settimana
facciamo almeno due o tre colloqui con candidati che desiderano impegnarsi. Di
anno in anno, considerando chi smette per raggiunti limiti di età o chi perché
non riesce più a conciliare l’attività con i propri impegni professionali, cresciamo
di venti, trenta unità».
Nessuna «mancanza
di vocazione», quindi?
«Probabilmente, il fatto che la nostra immagine sia molto forte aiuta. Tanti
arrivano proprio perché siamo la Croce Rossa. Magari altri nomi, diciamo così,
fanno fatica. In linea di massima, comunque, non direi che c’è una mancanza di
vocazione. Sarei ingiusta rispetto a tutti quelli che si sono annunciati e
ancora si annunciano».
Ma il
volontario è un mestiere per tutti?
«Sì. È vero che ci sono alcuni dossier delicati, come appunto i migranti. Ma è
altrettanto vero che molte delle nostre attività sono particolarmente
tranquille: la gestione dei nostri negozi, il volontariato in biblioteca, la
lettura in casa anziani. L’idea, alla base, è quella di offrire un volontariato
con esperienze e impatti emotivi differenti. L’unica base che serve, per
cominciare, è la motivazione».


Detto delle
varie possibilità, gli sforzi maggiori negli ultimi anni si sono concentrati
sulla pandemia, la guerra in Ucraina e la situazione dei migranti al confine.
Quanta pressione avvertite, in questo senso?
«Ricordo che, non appena è esplosa la guerra, come Croce Rossa abbiamo
pubblicato un annuncio. In poche settimane, pochissime direi, abbiamo reclutato
una novantina di volontari sparsi in tutto il Ticino. Il telefono era bollente,
tante erano le richieste. Significa che la voglia di aiutare, allora, c’era. E
c’è anche oggi, sebbene l’attuale emergenza migranti sia per certi versi
differente. Fra i giovani, soprattutto, c’è molta spinta».
Qual è, in
conclusione, il vostro rapporto con le autorità cittadine e cantonali?
«Come Croce Rossa lavoriamo bene, molto bene sia con Lugano, dove abbiamo la
nostra sede, sia con il Cantone. Tante nostre prestazioni, d’altronde, vengono
riconosciute da Bellinzona. Basti pensare al centro diurno, in parte finanziato
proprio dal Cantone. La Città di Lugano, sul proprio sito, pubblica di continuo
un bando per cercare volontari. Non solo, la stessa Conferenza del volontariato
sociale in parte è finanziata dal Cantone grazie a una risoluzione governativa.
Tradotto: è (anche) il Cantone a finanziare le formazioni e in generale il
lavoro dei volontari. Per anni, noi come altre associazioni, abbiamo dovuto
arrangiarci e trovare soldi qua e là. Adesso, invece, le autorità da qualche
anno a questa parte ci sono venute incontro».