Marina Masoni: «Allora, anche sull’orlo del baratro, si tirava fuori il meglio per il Ticino»

Marina Masoni, partiamo dal 2 aprile 1995, un giorno storico: l’elezione della prima donna in Governo. Ma non venne sottolineato come una «conquista femminile».
«È vero che i giornali non diedero quell’enfasi che ci sarebbe oggi, ma ricordo con piacere la felicità delle donne liberali radicali che vissero con me quel momento. Avevano lavorato molto, già solo per farmi mettere sulla lista, perché allora non era scontato».
Deve quindi essere grata al femminismo liberale radicale?
«Al femminismo liberale - e non solo - sono grata e dobbiamo tutte essere grate perché ha lottato per il diritto di voto alla donna, il primo, indispensabile e arduo passo. Per il resto sono stata grata a cittadini e cittadine, senza distinzione, che hanno sostenuto le mie idee. Il mio programma non era «di genere» era un progetto per il Paese, che in quel momento si trovava in una fase difficile».
È rimasto qualche sogno politico?
«I sogni sono sempre tanti, ma in politica contano i fatti. Devi portare progetti e realizzazioni. Ne ho sempre fatto l’elenco e la valutazione al termine di ogni legislatura».
Dal profilo umano che ricordi ha di quella giornata di festa con parenti e sostenitori (solo parte del PLR)?
«Una parte non era felicissima. C’era stato uno scontro, anche di anime, di disegni tra radicali e liberali».
E ricordi personali?
«Belli, ma non ne ho uno più speciale. Eravamo al Conza, c’era calore, partecipazione, soddisfazione e aspettativa di cambiamento».
Cambiare cosa?
«In Ticino c’era una crisi drammatica: avevamo perso 20.000 posti di lavoro nella prima metà degli anni Novanta. Nel 1997 c’erano 12.000 disoccupati, con un tasso del 9,7%, il triplo di oggi. C’era l’aspettativa e la volontà di fare qualcosa per tirarci fuori».
Era un’altra epoca?
«Certamente, e lo era pienamente anche con i colleghi».
In particolare?
«In particolare Pietro Martinelli. Lui un marxista e io una liberale-liberale. Destinati a fare a pugni in Governo».
Forse così avrebbero voluto i rispettivi fans club?
«È probabile, ma noi volevamo governare. E non dimentichiamo il ruolo di Giuseppe Buffi, grande tessitore di consenso. Insieme, abbiamo visto la diversità come arricchimento, abbiamo voluto costruire. E l’accordo l’abbiamo trovato. Forse inizialmente grazie alla formazione di Martinelli. L’ingegnere sapeva che i ponti, per stare in piedi, devono essere ben fondati, ed era disposto a sviscerare ogni aspetto per averne la certezza. E con i suoi non ha sempre avuto vita facile, non tutti lo avevano capito e alcuni gli dicevano che non era più abbastanza marxista».
E i suoi come la presero?
«Ricordo un bravissimo professore universitario che incontro ancora oggi, che alla prima legislatura mi disse: «Ma lei con le cose che fa non penserà mica di essere liberale». Questo per sottolineare che anche i liberali vedevano che il risultato non era proprio «liberale puro», come sarebbe piaciuto a loro e a me. Ognuno aveva dovuto rinunciare a qualcosa, ma aveva anche ottenuto risultati importanti».


I ticinesi con lei scelsero un chiaro profilo politico: meno Stato e più attenzione al ceto medio. Cosa è rimasto della stagione masoniana?
«È rimasto il fatto che abbiamo superato una crisi pesantissima. Ci siamo risollevati e il Ticino ha dimostrato che a fatica, scegliendo una strada che non ti promette niente a breve, ma crea opportunità, ne puoi uscire. Allora ne siamo usciti».
Qual è l’insegnamento da trarre?
«Occorre la consapevolezza che alla fine, facendo sacrifici, adeguandoti, impegnandoti, puoi affrontare anche momenti drammatici. E quelli lo erano davvero. Oggi non vedo questa consapevolezza nei ticinesi».
E come vede il Ticino e la sua politica attuale?
«Vedo un Cantone che si rassegna troppo presto. Gioca in difesa o forse gioca il meno possibile. Questo dispiace, perché le capacità e le potenzialità ci sono sempre; in quegli anni c’era però anche tanta energia e volontà di superare i grandi disastri. Anche sull’orlo del baratro si tirava fuori il meglio. Oggi abbiamo problemi ma perdiamo opportunità».
Però i partiti ogni tanto se le danno di santa ragione…
«Forse se le suonano ma non si confrontano. Sulle idee si autocensurano prima di esprimerle. Sarebbe un passo avanti constatare la capacità di «dirsele» senza «darsele»».
Ma anche il Governo della sua era, sul finire, ha mostrato il peggio.
«Certo, ma quello non aveva più nulla a che vedere con la progettualità; era solo battaglia personale».
Però oggi in Governo non ci sono tensioni…
«Trovare accordi è il mezzo per realizzare progetti e risolvere problemi; oggi, invece, andare d’accordo sembra il fine, l’obiettivo della legislatura. Davvero peccato».
Era fondamentalmente diverso anche il Ticino.
«Certo, il Ticino che osservavamo noi voleva anche confrontarsi».
D’altronde oggi ci sono i social. Vedrei male lei e Martinelli duellare su quel mezzo dove conta la sintesi…
«Vero. Scrivevamo perché non si può semplificare e banalizzare questioni di estrema serietà e profondità. Cercavamo entrambi di sviscerare ogni aspetto, facevamo quasi a gara nell’approfondimento, nella conoscenza dei dossier; la sintesi arrivava dopo. Ma so bene che approfondire oggi è una sorta di parolaccia ed è oggettivamente difficile, perché i social media richiedono prese di posizioni immediate e in poche parole».
Il Ticino dopo il terremoto del 1987 a sinistra, aveva un Governo quadripartito con l’accesso della Lega. Che situazione ha vissuto?
«È iniziato il processo di istituzionalizzazione della Lega. L’integrazione nel Governo di un partito che viveva di opposizione tosta».
Ci racconti la prima seduta, la giornata di martedì 11 aprile 1995.
«Giuseppe Buffi e Pietro Martinelli erano rispettivamente al DIC e DOS, inamovibili. Il PPD voleva il Territorio ma Alex Pedrazzini teneva alle Istituzioni e vi è rimasto nonostante le fortissime pressioni».
Al DFE lei pareva essere predestinata…
«Forse: avevo fatto campagna sui temi economici e finanziari, inoltre il DFE era già assegnato al PLR e così a Marco Borradori è rimasto il Territorio».
Il collega politicamente più distante era il socialista Pietro Martinelli. Come ricorda il primo approccio?
«Tra noi c’era una divergenza profonda a livello politico, era l’avversario. Ma la diffidenza iniziale è stata in breve superata dalla responsabilità e dal lavoro».
Siamo al famoso accordo, qualcuno lo chiamò inciucio. Ce lo ricorda?
«Vado fiera di quelle linee direttive frutto di lunghe discussioni, prodotte tra aprile e ottobre nella prima legislatura. Prevedevano 450 milioni di franchi di risparmi, lo sviluppo dell’università, un pacchetto fiscale, l’assegno familiare e la riforma dell’amministrazione. Ai puristi non piaceva, ma fu vero compromesso, fondamentale per la tenuta del paese».
Gli dava del lei?
«All’inizio Martinelli diede del lei a Borradori e a me. Poi siamo passati al tu. Sempre rispettoso però. E oggi ancora, noi tanto distanti nelle idee, ci rispettiamo, ci stimiamo. Il bello della politica, il bello della vita. E i confronti sono stati a dir poco duri».


Nel 2000 ci fu un fatto drammatico, la scomparsa di Giuseppe Buffi con il quale c’era sostanziale intesa politica e amicizia.
«È stata una grande perdita. Era un amico, un collega preziosissimo. Curioso, preparato, aperto, e un grande mediatore».
Poi arrivò Gabriele Gendotti. Quale fu l’approccio?
«Cambiò molto, cambiò l’indirizzo politico».
Visse male gli anni a seguire?
«Diciamo che, man mano, si passò dal confronto sui progetti a quello sulle persone. Eravamo politicamente diversi, ma questo ci stava, poi dal 2005 si entrò in una dinamica di lotta personale, in cui una parte del partito e del mondo politico voleva distruggere l’avversario, non confrontarsi».
E ci fu anche il passaggio da Martinelli a Patrizia Pesenti.
«Confrontarsi sui temi divenne più faticoso».
E si iniziò a dire che «il litigio è donna». Come reagisce?
«Questo non era vero. Patrizia era socialista e io liberale. Era normale vi fosse un confronto, il genere non c’entrava. Anzi, oserei dire che vi era un po’ del maschilismo dell’epoca. Diciamo una velata discriminazione giornalistica. Se la consigliera di Stato socialista si confronta con la consigliera di Stato liberale ecco che la questione si riduce alle donne che litigano».
L’ultima legislatura fu piuttosto burrascosa. Il Fiscogate e il PLR che (volutamente semplifico) si dilaniò tra pro e contro Masoni. Se ripensa a quegli anni c’è ancora animosità o il tempo lenisce ogni ferita?
«Il cosiddetto Fiscogate meriterebbe davvero un serio approfondimento a partire dai fatti. Penso però che ognuno si sia formato la sua opinione sul tema e che non abbia senso aggiungere altri fiumi di parole. Non rivanghiamo. Mi sono ricandidata in quella circostanza oggettivamente proibitiva per dare agli elettori la possibilità di scegliere ed essere in pace con me stessa per aver fatto il possibile».
L’aprile del 2007 con la sua estromissione e l’entrata di Laura Sadis, ha chiuso o ha aperto una ferita?
«Ha chiuso la strada politica».
Però poi è stata contattata dall’UDC, anche per la corsa al Consiglio federale.
«Ci ho pensato bene, ma ero stata una vita nel PLR e il cambio di giacca per fare il salto di carriera non faceva per me».
Se pensa oggi al PLR pensa a quella che è stata la sua casa o a chi l’ha voluta fuori?
«Alla mia casa, anche se poi tutto è andato in un’altra direzione. Ma lo dico con grande serenità».
Concludiamo con quello che fu il manifesto di Marina Masoni. Il Libro Bianco. Che senso aveva avuto? Sarebbe ancora utile nel Ticino di oggi?
«Il Libro Bianco, insieme con le 101 Misure, aveva il senso di indicare le possibili traiettorie di sviluppo del nostro Cantone e le misure puntuali per facilitare la crescita e scongiurare il declino. Sarebbe utilissimo ancora oggi fare proposte concrete guardando avanti: un libro bianco Ticino 2040».