Quinta puntata

Natale alla Carità: «Torno a casa ed è come arrivare fino alla luna»

Nei corridoi incontriamo Giacomo Ratti, che ha sconfitto il virus e sta per essere dimesso – Fra sorrisi birichini, l’innamoramento per l’infermiera Verena e le mille avventure da investigatore privato
© CdT/Gabriele Putzu
Barbara Gianetti Lorenzetti
Barbara Gianetti Lorenzetti
22.12.2020 14:55

È un fiume in piena Giacomo Ratti. Lo intercettiamo lungo un corridoio, sulla porta della camera, seduto su una sedia a rotelle, con un ingombrante sacco di plastica giallo sulle ginocchia. «Va a casa?», gli chiediamo. «No, sulla luna», risponde con gli occhi che gli sorridono birichini. Come a tanti, il virus gli è piombato addosso inaspettato. «E sì – racconta ancora – che sono sempre stato molto attento. A casa, a far la spesa. E anche sul lavoro». Il lavoro, già. La passione della sua vita. Si sente mentre ne racconta. «Sono investigatore privato da trent’anni. Ne ho viste di cotte e di crude. In tutto il mondo». Forse è proprio per questo, riflette, che affrontando la COVID-19 «sono sempre stato molto tranquillo».

«È cominciato tutto lunedì scorso (il 14 dicembre, ndr.). Avevo un leggero raffreddore, nulla di preoccupante. Ma mi è comunque stato detto che, vista l’età, sarebbe stato meglio chiamare il medico». Allora è cominciata la trafila che purtroppo in tanti conoscono. Lo spostamento da Davesco, dove Ratti abita, al Civico di Lugano, il tampone positivo e la decisione di trasferirlo alla Carità di Locarno. «Qui, mentre la situazione peggiorava, il medico mi ha detto che sarebbe stato un cammino in salita». Ma lui non si dà per vinto. «Ho fatto tutto quello che mi hanno chiesto, ho avuto bisogno dell’ossigeno per respirare. E, alla fine, sono stato fortunato. La situazione è migliorata, tanto che qui in ospedale ho anche finito per... annoiarmi. È incredibile, non si può nemmeno leggere un giornale!», scherza (ma non troppo). Un provvedimento adottato, ovviamente, per preservare la sicurezza sanitaria. «Per fortuna che domenica mia figlia ha potuto venire a trovarmi e me ne ha portato uno».

Poi scalpita, Giacomo Ratti. Sta aspettando il servizio di trasporto che lo riporterà a casa. Alle sue passioni. «Alla mia serra. Lì coltivo di tutto. Sono autosufficiente. Ancora prima di ammalarmi ho raccolto gli ultimi pomodorini cherry», ricorda, con l’orgoglio negli occhi. Dopo la malattia anche queste cose diventano importanti. Quindi torna a raccontare della sua incredibile carriera di investigatore privato. «Durante la quale ho rischiato parecchie volte la vita. Una volta hanno tentato di uccidermi in Sudamerica, sono stato testimone di una sparatoria a San Francisco, ero in Israele durante la guerra del Kippur...». Un uomo, mille avventure, insomma. «Così questa esperienza è stata una delle tante finite bene». Che gli ha però fatto scoprire un mondo di umanità. Quella del personale dell’ospedale, sempre presente e premuroso. E anche sempre pronto a sorridere con gli occhi alle sue tante battute di spirito. Soprattutto la «sua» Verena. L’infermiera che lo sta accompagnando all’uscita. «Lei è eccezionale – dice Giacomo con sguardo amorevole – ormai me ne sono innamorato e ha promesso che verrà a trovarmi a casa». Dove lo aspettano una figlia e tre nipotini, mentre un’altra figlia abita a Dubai. Con loro condividerà le feste che si stanno avvicinando. Gli chiediamo dunque, lasciandolo andare verso l’uscita tanto attesa, un augurio per coloro che lo leggeranno. «Auguro a tutti un Natale che si porti via questa porcheria di un virus, ricco di pace serena e di responsabilità, affinché ognuno rispetti le regole, pensando anche – e soprattutto – alla salute degli altri».

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