Nei boschi della droga «sparatorie in pieno giorno e minacce ai civili»
Una banda di marocchini pronta a combattere per il dominio dei boschi della droga tra Vergiate e Sesto Calende, in provincia di Varese. I Carabinieri della Stazione di Sesto Calende, negli scorsi giorni, sono entrati in azione assieme ai colleghi della Radiomobile di Gallarate e hanno inflitto un altro duro colpo agli spacciatori attivi a mezzora d’auto dal Ticino. Dieci le persone finite in manette prima che la situazione sfociasse in un bagno di sangue: «Bisogna tagliargli i piedi. Bisogna mettere il fucile sui piedi e colpire alla caviglia», si dicevano tra loro al telefono i pusher, intenzionati a rispondere all’attacco subito da una banda rivale. Le autorità hanno recuperato un fucile a pompa d’assalto, duemila euro in banconote e droga (cocaina, eroina e hascisc). E non solo: anche l’occorrente per vivere nei boschi, pure per un mese, in tenda. Dopo gli appelli lanciati a Roma, con il recente intervento dei reparti speciali, gli squadroni Carabinieri Eliportato Cacciatori Sardegna e Sicilia, la situazione sembra aver preso una nuova piega. Negli anni in quei boschi sono morte almeno 5 persone e chissà quante dosi di droga sono state vendute. Secondo Andrea Camurani, giornalista di Varesenews che da tempo si occupa del tema, la svolta è arrivata in seguito all'uccisione di uno spacciatore a Castelveccana, per cui è indagato un carabiniere: «Lega e Fratelli d’Italia hanno cercato di alzare il livello di attenzione sulla zona e ora stanno arrivando un po’ di risultati».
Non temono il dolore fisico
Andrea Camurani cita alcuni episodi, per farci capire come operano i pusher e cosa succede nei boschi del Varesotto: «Ad aprile dell’anno scorso, tra Laveno Mombello e Sangiano, sul Lago Maggiore, c’è stata una sparatoria. Sono stati ritrovati 48 bossoli di arma da caccia calibro 12 caricati con piombo spezzato. Due gang hanno cominciato a spararsi nei boschi, in pieno giorno. In Valcuvia, un mesetto dopo, hanno trovato un ragazzo di 26 anni, nudo, con le braccia spezzate e un orecchio tagliato. Il giovane è stato legato a un albero e frustato per ore, perché aveva sgarrato. Volevano fargli capire chi comanda. Stiamo parlando di tortura: queste persone non hanno paura del dolore fisico». Un primo elemento: la brutalità. Il giornalista di Varesenews ne aggiunge un secondo: la ramificazione. «Per la tortura a quel ragazzo, hanno recentemente arrestato tre persone: una a Pavia, una a Milano e una in provincia di Salerno. È un’organizzazione ramificata, mobile e geograficamente presente in diversi punti del Nord Italia. Agli spacciatori viene fornita qualunque cosa, dalle medicine ai guanti per scaldarsi nei boschi, passando per le tende e il cibo. Sino alla droga, che viene comprata nelle zone dell’hinterland milanese: è probabile che ci sia un aggancio con la criminalità organizzata», dice il nostro interlocutore. Le persone finite in manette provengono da una specifica zona del Marocco, l’area interna di Béni Mellal. Dal monitoraggio dei Carabinieri è emerso che negli ultimi mesi, i pusher attivi a Sesto Calende, Vergiate, Castelletto Ticino e Casale Litta hanno venduto migliaia di dosi di droga a circa 150 consumatori. E i soldi guadagnati con gli stupefacenti, dove vanno a finire? Nella maggior parte dei casi vengono mandati ai famigliari, in Marocco. Andrea Camurani spiega: «Mettiamo che guadagnino duemila euro al mese: se dormono nei boschi, in tenda, bastano meno di 500 euro per vivere. Il resto lo spediscono in Marocco, dove, con quei soldi, mantengono anche una famiglia di dieci persone. Molti di questi spacciatori sono dei disperati: non è gente che vende droga per andare all'Oceano di Lugano, per intenderci».
Clienti su WhatsApp, anche svizzeri?
Ma come fanno i clienti a rintracciare gli spacciatori, spesso invisibili pure alle autorità? «Nell’ambiente dei consumatori abituali di droga girano i loro numeri di telefono. Hanno numerosi cellulari – per questo poi le autorità ne sequestrano così tanti - , sia vecchi che nuovi, e si accordano con il compratore via messaggio o su WhatsApp», racconta Camurani. E prosegue: «Raggiungono il pusher in un determinato punto, contraddistinto da qualche segno particolare: una rete, una sbarra, simboli rossi sul guardrail. Il cliente aspetta nel punto indicato, finché non arriva il “cavallino”, che gli consegna la roba. Il pusher porta con sé solo la quantità che serve in quel momento, il resto lo tiene un secondo spacciatore, nascosto, pronto a farla sparire in caso di imprevisti». È per questo che si fa fatica ad arrestarli e a imporre loro pene severe, sottolinea il giornalista: «Se li beccano, trovano piccoli quantitativi di droga e anziché farsi da 2 a 6 anni, si fanno da 6 mesi a un anno, spesso con la condizionale». Parlando di clienti, è possibile che ce ne siano anche di svizzeri: solo indizi, però, nessuna prova schiacciante. Il nostro interlocutore ricorda: «Nella casa di un marocchino arrestato di recente sono stati trovati franchi svizzeri. Ma questa è anche la valuta con cui vengono pagati i frontalieri, quindi non possiamo parlare con certezza di clientela da oltre confine. Possiamo però osservare un'attinenza con la Svizzera: nell’indagine "Maghreb", avviata dai Carabinieri di Luino nel 2017, sono stati individuati acquirenti alla guida di auto con targhe svizzere. La stessa cosa era emersa da un'inchiesta di polizia dalle parti di Cadegliano Viconago».
Fucili d’assalto e minacce ai civili
Negli ultimi tempi le cose sono cambiate, perché il mercato è più caldo e il territorio è conteso da bande rivali: «Si è passati dalle roncole, le mannaie e i coltelli, alle armi da fuoco. I semplici furti nelle abitazioni possono trasformare gli spacciatori in potenziali assassini: molto spesso le armi le rubano ai privati. Le gang si sparano con i fucili da caccia che rubano a casa della gente», constata Camurani, aggiungendo: «Qualche anno fa, nei bivacchi, si trovavano al massimo vecchi fucili arrugginiti che avrebbero spaventato giusto un civile. Oggi si trovano anche fucili a pompa d’assalto, persino nuovi, usati per affrontare altri spacciatori». Al di là delle continue tensioni tra bande rivali, c’è chi si è trovato in brutte situazioni, solo per aver fatto una passeggiata nel bosco: «Hanno minacciato pure i civili. Per intenderci: la persona ignara che va a fare un giro con il cane», evidenzia il giornalista. E continua: «Di base non vogliono casini, ma se, ad esempio, il cane inizia ad abbaiare, gli spacciatori escono dai loro nascondigli e, anche arma in pugno, cacciano via chi si trova nel loro territorio. Poi le armi non le usano, perché se ci scappa il morto, in quella zona non lavorano più. Un ragazzino, a Casalzuigno, in Valcuvia, è stato minacciato da uno che è uscito dal bosco con un machete in mano. Non era un maniaco sessuale, ma uno spacciatore che non voleva lì quel giovane. Perché nessuno deve dare fastidio ai clienti. A fine aprile, nei boschi fra Rancio Valcuvia e Masciago Primo, sono stati uditi parecchi spari e le forze dell’ordine hanno ritrovato 400 munizioni, da quelle calibro 12 da caccia alle calibro 9 per armi da fuoco corte e revolver. Anche in queste zone sono state minacciate delle persone e, in generale, le segnalazioni ai Carabinieri sono numerose».