«Non abbandoniamo le valli, ma il trend sociale è ineluttabile»
Quando gli ricordo il tema del nostro incontro - la vita nelle valli -, la faccia di Claudio Zali si contrae. I punti da toccare sono molti, e anche importanti, perché l’alluvione in Vallemaggia poi ha scoperchiato un pentolone. Come società, siamo tornati a parlare dei rischi legati alle montagne, addirittura - qua e là - è affiorato il fantasma dell’abbandono delle località di valle.
Claudio Zali, che cosa significa oggi vivere nelle valli ticinesi?
«Significa continuare consapevolmente a vivere in una regione periferica, con alcuni vantaggi - in termini di qualità di vita, di vicinanza alla natura, di tranquillità, di prossimità rispetto a una comunità di cui si è più pienamente parte - ma anche con alcuni svantaggi. Poi non tutte le zone periferiche sono nella medesima situazione di fronte ai pericoli naturali. Quando si vive in una stretta zona di fondo valle, circondati da tante montagne, si è consapevoli che questo comporta alcuni rischi, di vario genere. Una consapevolezza storica. In passato ci si approcciava a questi problemi di sicurezza in modo empirico, non su basi scientifiche, seguendo piuttosto la necessità di lasciare alcune zone libere per l’agricoltura, quelle più produttive. Prima c’era la fame, poi le considerazioni sui pericoli naturali».
Con il passare dei decenni, l’approccio è diventato fortunatamente più scientifico.
«E sono nate leggi sulla pianificazione del territorio, sono stati creati piani regolatori. La consapevolezza - accresciuta - delle zone di pericolo si è rispecchiata in opere di protezione, provvedimenti costruttivi di cui cerchiamo di far beneficiare l’intero territorio cantonale. Negli ultimi anni tutto ha subìto un’accelerazione, la natura ci ha messo di fronte a una situazione nuova. Le temperature medie sono salite, ed è un dato di fatto. Si può essere negazionisti climatici finché si vuole, ma non si possono contestare questi dati. E temperature più alte significa addio ghiacciai, meno neve, ma anche maggior energia nei fenomeni, i quali diventano estremi. Quanto successo lo scorso 30 giugno in Vallemaggia non ha precedenti. Simili portate del fiume Maggia non erano neppure pensabili: ora sono realtà. Fenomeni che avevamo etichettato come centenari, iniziano ad avere periodi di ritorno brevissimi. Ciò alza il livello della partita. E rende nuovamente meno sicuro vivere in questi luoghi. L’uomo, con superbia, si illude di poter governare la natura, ma non può farlo. E di fronte ai cambiamenti climatici, la posta in gioco è ulteriormente aumentata. Abbiamo visto che la natura è in grado di spingersi oltre. Tocca a noi risolvere l’emergenza e, quindi, ripensare ai rischi».
Sul suo schermo, onorevole, notiamo le mappe di pericolosità della zona colpita in Vallemaggia. La pista di ghiaccio di Prato Sornico non era in una zona rossa. Si erano avute, in passato, però, alcune avvisaglie. Eppure quella pista era ancora lì, un punto di riferimento. Situazioni al limite: un’eccezione o la regola, nelle valli?
«Sul singolo oggetto, occorrerà un processo di valutazione alla luce della violenza manifestata dalla natura in quell’area, in proporzioni mai viste prima. La pista sorgeva molto vicino al fiume Maggia. Ebbene, che garanzia abbiamo, oggi, domani, che non succeda un altro evento simile nel giro di pochi anni? È una questione di buon senso e di riflessioni politiche, due aspetti che non sempre vanno di pari passo. Certamente, rifare la stessa cosa lì dove è appena stata portata via dal fiume non sembrerebbe molto assennato. Il minimo che si possa dire è che forse il percorso pianificatorio non era stato così lineare come invece sarebbe stato oggi, con le norme attuali. Ma oggi abbiamo scoperto che possono scendere anche mille metri cubi di acqua in un secondo. Dobbiamo nuovamente imparare dalla realtà, che è cambiata. Se poi le situazioni pianificatorie “al limite” fossero la regola, in altre epoche, non lo so, ma ribadisco che le valutazioni erano più empiriche. Tutti i rustici, costruiti all’epoca come abitazioni agricole, sono ancora lì, sopravvissuti a oltre cento anni di pericoli naturali. Nonostante la loro lunga vita precedente, alcuni sono caduti in questo evento. E ora? Alcuni si trovavano al di fuori della zona edificabile, e difficilmente potranno essere ricostruiti pari pari. Ma guardi lì...».
(ci indica il Sasso Corbaro, su cui si affaccia il suo ufficio, ndr). È un bello scorcio, ma ci dica...
«Be’, vediamo un territorio collinare, che probabilmente non viene segnalato in alcuna carta di pericolo sulla base delle misurazioni fatte sin qui, sulla base di ciò che conoscevamo. Ma se applico quantitativi d’acqua mai visti, su cui non abbiamo esperienza, che cosa succederà? Fin dove dovremo spingerci con le nostre previsioni? Che cosa possiamo adattare?».
E quali sono le risposte?
«Non ci sono, non posso dargliele a poche settimane da un evento del genere. Ho riaperto il gruppo di lavoro all’interno del dipartimento. Nell’incontro della scorsa settimana ho esposto queste argomentazioni. Tutti siamo rimasti colpiti dalla forza di questi eventi, e capiamo che dobbiamo ripensare ad alcuni parametri. Per esempio, abbiamo sempre usato tubi da 100 cm per smaltire l’acqua, be’ forse ci vorranno tubi da 150 cm per evitare che i tombini tracimino. Ma quanto ci mettiamo a metterli ovunque? Oppure: dove varrà la pena farlo? Quanto ci costerà, e quanti fondi abbiamo a disposizione? Ecco, il gruppo di lavoro dovrà affrontare tutte queste domande. Questo evento d’altronde non è il primo segnale, e altri probabilmente ne avremo a causa dei cambiamenti climatici in atto. Il nostro sogno è che nessuno soccomba alle forze della natura, nel territorio che cerchiamo di proteggere, ma sappiamo anche come sia illusorio pensare a questo territorio come privo di rischi».
Non è sempre facile capire il lavoro di valutazione e di intervento sui pericoli della natura.
«Si tratta di avere una profonda conoscenza del territorio, di ogni anfratto, ma anche di esaminare il passato, di riconoscere che alcuni luoghi sono empiricamente problematici, ma si tratta anche di dotarsi di opere di contenimento, sbarramenti, camere, canali. Non solo. È necessario interrogarsi continuamente sullo stato di questi manufatti. Parliamo di lavori costati tanti soldi e tanto lavoro. Ora ci stiamo interrogando sulla necessità di ingrandire le opere; sì, ma quanto? E quanto influirà questa nuova realtà climatica? Un altro esempio: il maltempo che aveva colpito Manno due anni fa. In quel caso, la colata aveva lambito le case, ma se fosse sceso il doppio dei quantitativi d’acqua? Altro esempio ancora: Ronco sopra Ascona. Il maltempo aveva portato via tutto il bosco di protezione. Ma al prossimo episodio, che cosa tratterrà l’eventuale materiale franato? Il problema è che, in questi giorni, in queste settimane, siamo tutti sensibili al tema, ma poi torneremo a voler costruire ognuno dove fa più comodo, a pretendere, al di là del buon senso».
Sono discorsi molto delicati che portano la popolazione delle valli a temere un abbandono. È solo un fantasma?
«Di abbandono e di spopolamento si parla da decenni. Poi però c’è anche la realtà dei fatti. E io non posso sovvertire la trasformazione sociale ed economica, profonda, in atto ormai dal secolo scorso. Preoccuparsi per i pericoli naturali non equivale a spingere la popolazione delle valli ad abbandonarle. Non è questo il punto. Il punto è la sicurezza. La società poi ha dinamiche proprie. La politica continua ad avere attenzione nei confronti della popolazione delle valli. A volte persino in maniera sbilanciata. Se calcoliamo lo spazio dato, anche mediaticamente, al lupo, per esempio, sembra quasi che questa sia la priorità del nostro cantone. Per diversi allevatori lo è, e lo rispettiamo. Ma occorre una visione più ampia. Il Ticino è diviso tra visioni contemporanee e reminiscenze del passato. Questa tensione c’è, anche se gli agglomerati sono spesso più silenziosi rispetto alle regioni periferiche. La realtà è che il Consiglio di Stato mantiene un equilibrio tra le varie priorità. La Vallemaggia in questo momento lo è, ci mancherebbe altro, perché merita tutte le attenzioni del caso e un importante sforzo di ricostruzione. Ma io intravedo un’ineluttabilità di determinate dinamiche che colpiscono le regioni periferiche. È tabù dirlo pubblicamente? Magari sì, ma i dati sono chiari: una volta le città erano meno città e le periferie erano molto più popolate. Questo si è sovvertito, credo, irrimediabilmente».
Qual è la distanza tra pessimismo e mancato interventismo per proteggere la vita in valle?
«Io non ho tutte le risposte, ma sono consapevole dei problemi. Al netto della nota impazienza, rispetto a questioni che richiedono una certa analisi, stiamo trattando il tema. Ma il vero problema è che qui non stiamo parlando delle singole valli, ma di ripensare a tutto il cantone, iniziando dalle zone insediate, potenzialmente soggette anch’esse alla grande energia degli eventi naturali. Curiamo le protezioni, chiediamo crediti importanti, ma se si alza la posta in palio e ciò che succedeva ogni cento anni ora accade ogni due, allora è inevitabile riflettere e intervenire. Per quanto riguarda le valli, la popolazione è consapevole della precarietà. Umanamente comprendo bene quanto sia difficile convivere con queste difficoltà. Ogni elemento di disturbo rappresenta un ostacolo in più, sia esso il ritorno di un animale protetto ma conflittuale oppure la furia degli elementi. Sono fattori che vanno a colpire persone consapevoli dello sforzo che già stanno facendo per non essere trascinate a valle. Comprendo bene la sensazione di vivere controcorrente e di ritrovarsi di fronte a ulteriori ostacoli».
Che ruolo rimarrà alle valli, allora, se la società ci trascina tutti giù verso la città?
«Le chiedo una cosa: chi è ancora disponibile, oggi, a fare il contadino di montagna? È una riflessione costante, nelle valli, specie per i più giovani. Non so di chi sia la colpa, se della tecnologia, della società, della politica. È piuttosto un’evoluzione complessiva e globale, che non si ferma al nostro cantone. Trovare soluzioni politiche per invertire a forza una tendenza dettata da eventi più grandi di noi mi sembra un esercizio infruttuoso. Forse io sono pessimista, non so. Nel mio privato ho trovato un compromesso nella collina: non sono un cittadino, perché non amo la vita urbana, mentre la vita urbana mi allontanerebbe troppo dal mio lavoro. Ma questi compromessi non sono scontati nel nostro territorio».
Si parlava di cambiamenti climatici. Per proteggere le valli bisogna proteggere anche il clima. Il nuovo piano energetico e climatico, il PECC, è sufficiente?
«Con il PECC abbiamo chiesto molte misure coraggiose, misure concrete che richiederanno relative modifiche di legge. Non mi aspetto che tutto venga accettato. Anzi, nell’immediato mi preoccupa anche il lavoro della Gestione sul credito da 100 milioni e sull’autorizzazione alla spesa di 200 milioni fino al 2031 per la continuazione del programma di incentivi (tramite emendamenti c’è chi in GC vorrebbe frenare la crescita di questo credito, ndr). A volte, avverto visioni distopiche di persone che la domenica si preoccupano del maltempo in Vallemaggia e poi, il lunedì, frenano il credito perché si preoccupano per la situazione finanziaria del Cantone. Non si dimostrano conseguenti nella loro azione politica. Vero, occorre un’attenzione ai costi, ma queste catastrofi ci ricordano che abbiamo un compito da svolgere. Rallentare questa tendenza verticale di concessione e consumo degli incentivi rappresenta una continuazione inadeguata rispetto agli obiettivi posti dalla Confederazione. Non voglio fare terrorismo climatico, ma è un dato di fatto che le cose sono cambiate».
Il PECC, ai suoi occhi, è un compromesso? Avrebbe voluto spingersi più in là?
«Il PECC è già abbastanza audace, contiene norme conseguenti alla volontà di andare a zero emissioni nel 2050. Ma questo non può avvenire senza incrementare la velocità di crociera. Occorrono più investimenti e bisognerà adottare diverse misure. Se aumento gli incentivi per le termopompe, ma poi trovo il proprietario affezionato alla sua caldaia a gasolio, arriveremo a un punto in cui dovremo far scattare un obbligo. Insomma, se dobbiamo andare a zero, tutti dovranno farsene una ragione».