L'intervista

«Non mi sono mai sentita prigioniera dei generi»

La regista americana Kelly Reichardt si è presa una bella «rivincita» ricevendo dalle mani del collega ed amico Todd Haynes il Pardo d’onore di Locarno 75
Antonio Mariotti
13.08.2022 06:00

Era già stata agli onori, ma in una situazione totalmente diversa rispetto a quella di oggi, al Festival del 2020 quando il suo film First Cow aveva inaugurato un’edizione fortemente condizionata dalla pandemia. Ieri sera però la regista americana Kelly Reichardt si è presa una bella «rivincita» ricevendo dalle mani del collega ed amico Todd Haynes il Pardo d’onore di Locarno 75. 

Attiva da quasi un trentennio come regista (il suo primo lungometraggio, River of Grass, è datato 1994), la Reichardt si è guadagnata una solida fama tra la critica internazionale con una serie di opere prodotte in maniera indipendente, che vengono spesso definite «minimaliste» e che puntano in particolare su personaggi e contesti marginali, solo di rado presi in considerazione dal cinema americano. È quel che capita ad esempio nel suo ultimo film Showing Up, presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, la cui protagonista è una scultrice (interpretata da Michelle Williams) alle prese con i preparativi per una sua importante mostra ma anche con tanti piccoli problemi quotidiani. La nostra conversazione con Kelly Reichardt inizia proprio da qui.

Come vive personalmente le due dimensioni - quella quotidiana e quella artistica - con le quali si confronta la protagonista di Showing Up?

«Beh, questo film ha un aspetto particolarmente personale per me poiché per la prima volta ho filmato anche nella scuola d’arte dove insegno da anni (il Bard College, nello Stato di New York, ndr) e ciò mi ha portato a interrogarmi sulla situazione di molti artisti oggi, che non hanno ancora un loro pubblico e sono obbligati a lavorare per sopravvivere cercando di non perdere di vista la propria attività creativa. Con Jonathan Reymond, lo sceneggiatore con cui collaboro da lungo tempo, eravamo partiti dal progetto di un biopic sulla pittrice canadese Emily Carr che per dieci anni, invece di lavorare, ha comprato una casa e l’ha trasformata in albergo pensando che ciò le avrebbe permesso di essere abbastanza libera per continuare la propria attività artistica, prima di scoprire che questa attività le sottraeva troppe energie e non ne aveva più per dipingere. Ben presto però ci siamo resi conto che, mentre negli Stati Uniti è molto poco conosciuta, in Canada è una vera e propria celebrità e quindi sarebbe stato come girare un film su Walt Disney. Abbiamo quindi lasciato perdere ma abbiamo mantenuto l’idea di raccontare una storia che mostrasse il difficile equilibrio tra attività artistica e vita quotidiana».

I suoi film si svolgono spesso in spazi molto esigui, un paio di stanze e una strada le bastano per raccontare una storia. Come progetta gli spazi dei film che sta per girare?

«In effetti Showing Up è stato girato in una vecchia scuola d’arte che attualmente è chiusa - come purtroppo capita sempre più spesso con questo tipo di istituti in America - e in una strada che conosco bene poiché ho diversi amici che vi abitano o vi hanno abitato. Oltretutto sono luoghi molto vicini a casa mia e quindi, già durante la fase di scrittura della sceneggiatura, ho potuto facilmente andare sul posto per trovare i luoghi e i punti di ripresa più adatti. A questo lavoro contribuisce però ovviamente anche il direttore della fotografia che disegna poi una mappa immaginaria dei luoghi grazie alla luce e tutti seguiamo questa mappa durante le riprese, come se fossero dei luoghi reali, legati alla vita dei personaggi del film».

Lei è una regista conosciuta e premiata, non solo a Locarno, eppure ha dichiarato che non considera il suo lavoro di cineasta come la sua attività principale: come mai?

«Perché amo moltissimo insegnare e non mi piace quando qualcuno dice: “Se insegni è perché qualcosa è andato storto”. Nel mio caso, invece, si tratta proprio del contrario: ho sempre avuto l’ambizione di insegnare al Bard College poiché in questa scuola hanno insegnato cineasti che ammiro molto, come Peter Hutton, scomparso nel 2016 e alla cui memoria ho dedicato First Cow, o la cineasta femminista Peggy Ahwesh. È un luogo dove mi trovo benissimo e al tempo stesso considero il fatto di poter girare il tipo di film che mi piace di più come un vero miracolo nel contesto attuale. Il mio lavoro d’insegnante mi permette di allontanarmi regolarmente dal mondo della produzione cinematografica per sviluppare i miei progetti con maggiore tranquillità. Insegnare mi permette inoltre di continuare a riflettere insieme ai miei studenti su concetti come l’inquadratura o il montaggio. In questo senso considero un film come Showing Up un elogio delle scuole d’arte, anche se scegliere questa via non è certo facile. C’è il rischio di dover attendere diversi anni prima di avere la possibilità di realizzare i propri progetti e nel frattempo bisogna trovare un modo per sopravvivere senza sapere bene quale sia il posto migliore dove vivere. Io mi sono trasferita a New York senza conoscere nessuno in città ed è solo quando ho incontrato Todd Haynes che le cose hanno iniziato a funzionare».

Nonostante il suo spirito indipendente, nei suoi film fa spesso riferimento ai generi del cinema classico hollywoodiano: non le sembra una contraddizione?

«Insegnare cinema mostrando agli studenti film di genere classici come quelli di Anthony Mann o di Douglas Sirk è piuttosto semplice, perché ci sono molti aspetti formali da analizzare e si scoprono sempre nuovi temi di cui discutere. È chiaro però che la mia esperienza nel lavoro di cineasta non può essere paragonabile a quella di un John Ford, per esempio. La mia prospettiva è forzatamente molto diversa e ciò vale anche per altri periodi della storia del cinema che ammiro, come la Nouvelle Vague. Non ho mai pensato ai miei film come “film di genere” ma è vero che ad esempio ho girato gran parte di Meek’s Cutoff nel deserto, in un contesto da western, dove siamo abituati a vedere spuntare i nativi americani a cavallo all’orizzonte e questo influenza molto la nostra idea di film. Non mi sono però mai sentita intrappolata in un genere, quello che mi ha sempre interessato di più è raccontare la storia dei miei personaggi. Tutti i film alla fine sono un po’ dei road movie e un po’ dei western. È inevitabile».

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