L'intervista

«Orgoglio senza pregiudizi, ecco il Ticino vincente»

A tu per tu con Marco Solari, classe 1944, che oggi lascerà formalmente la carica di presidente del Locarno Film Festival
© CdT/Gabriele Putzu
Bruno Costantini
20.09.2023 06:00

Questo pomeriggio, durante l’assemblea generale del Locarno Film Festival, Marco Solari, classe 1944, lascerà formalmente la carica di presidente della manifestazione che ha mantenuto per ben 23 anni, passando le redini a Maja Hoffmann. Per questo colto ambasciatore del Ticino, profondo conoscitore dei meccanismi che reggono gli equilibri della Svizzera, testimone e protagonista dei cambiamenti del Paese dell’ultimo mezzo secolo, è giunto il momento di voltare pagina.

Marco Solari, lei è tornato in Ticino nel 1972 come primo direttore del neonato Ente ticinese per il turismo (oggi Ticino Turismo), dopo essere cresciuto a Berna, figlio del direttore della Polizia federale degli stranieri, e aver studiato a Ginevra. Che Ticino ha trovato?
«Ho trovato un Ticino periferico non solo geograficamente ma anche mentalmente, cosa che oggi sembra quasi inimmaginabile. Eravamo chiusi sia verso sud sia verso nord. Verso sud c’erano sentimenti anti-italiani ancora molto forti, retaggio del fascismo che non era certo nelle corde dei ticinesi. Verso nord mi sono spaventato nel constatare quanto il Ticino fosse lontano dal resto della Svizzera e quanto poco sapesse il resto della Svizzera del Ticino. L’amministrazione cantonale era chiusa su se stessa, non aveva molti contatti con quella federale e viceversa. C’era anche un problema di scarsa conoscenza delle lingue. Le debolezze e i ritardi dell’economia ticinese erano attestati dagli studi di Francesco Kneschaurek e Basilio Biucchi, più tardi sarebbero stati confermati dalla tesi sull’economia a rimorchio di Angelo Rossi. Ecco, questo era il Ticino che ho trovato nel 1972, ben diverso dal Ticino che avevo sempre idealizzato».

Nel turismo spopolava ancora lo stereotipo del boccalino. Lei lo fece saltare portando l’immagine del «Ticino terra d’artisti». Quale fu la molla per attuare questo cambiamento?
«Nel quadro generale che ho descritto prima, per l’ETT contribuire al cambiamento del Ticino in fondo richiedeva uno sforzo relativamente modesto. Qualsiasi cosa nuova che si facesse era una rivelazione soprattutto per la Svizzera tedesca che aveva una visione folcloristica e poco dignitosa per il nostro cantone, favorita dal cliché del boccalino portato all’eccesso o da un Corteo della vendemmia di Lugano ormai diventato il festival della plastica. Questo non era il Ticino. Sono sempre stato convinto che la cultura è uno dei motori per il cambiamento e la crescita di un territorio. Aver puntato sul “Ticino terra d’artisti” ha permesso di dare un impulso al cambiamento nella percezione del cantone e all’apertura culturale sia verso il resto della Svizzera sia verso l’Italia, cosa in un certo senso rivoluzionaria».

Oggi qual è l’identità ticinese?
«Oggi, rispetto a cinquant’anni fa, siamo un cantone aperto, consapevole che, grazie alla cultura, si può essere trainanti e non solo a rimorchio. Abbiamo un fermento accademico attorno a USI e SUPSI, abbiamo l’Orchestra della Svizzera italiana, abbiamo il LAC a Lugano e, con un ruolo sempre più incisivo, festival letterari quali gli Eventi letterari del Monte Verità e altri. E poi, ovviamente, da oltre 75 anni il Locarno Film Festival. Abbiamo vie di comunicazione che cinquant’anni fa non esistevano. Oggi il Ticino è al centro di tutto il continente con una giovane generazione che ne è perfettamente cosciente. Questa giovane generazione, che ho imparato a conoscere al Festival, è aperta ed è un vero motore. Ricordo che già negli anni Novanta del secolo scorso Nicolas Hayek padre mi spiegava che veniva a cercare giovani manager in Ticino perché avevano le qualità nordiche e le sensibilità latine. La metodicità con l’eleganza, diceva. Aveva ragione e oggi ne abbiamo la conferma. È il Ticino vincente dell’orgoglio senza pregiudizi».

Eppure il Ticino appare ancora oggi diviso sul tema della chiusura e dell’apertura. Per esempio il partito di maggioranza relativa in Consiglio di Stato alla frontiera costruirebbe un muro. Come si esce da questa contraddizione?
«Capisco che ogni movimento e partito politico ha bisogno di slogan e di prese di posizione forti, ma allo stesso tempo credo che tutti si rendano conto che l’apertura sia inevitabile. Non dimentichiamo che la Lega ha per esempio contribuito alla nascita dell’USI, che ha fatto nascere il promettente Endorfine Festival o che il consigliere di Stato Norman Gobbi è stato presidente della Regio Insubrica. Sono evidenti segni di apertura e con le nuove generazioni le contraddizioni diventeranno sempre più tenui. Nei rapporti con l’Italia è vero che, in generale, in Ticino ci sono ancora dei sentimenti di prudenza, anche se meno pronunciati rispetto al passato. Quello che dico sempre negli incontri con gli ambasciatori italiani per spiegare questa prudenza per loro sovente incomprensibile è che tra Svizzera e Italia c’è una grande differenza di cultura politica. In Italia la cultura politica si è sviluppata dall’alto al basso, si spera sempre nell’uomo o donna della provvidenza, da noi, invece, la spinta viene dal basso».

Nel 1988 lei è stato designato delegato del Consiglio federale per il Settecentesimo della Confederazione celebrato nel 1991. Cos’ha rappresentato quel momento per la Svizzera e per la Svizzera italiana?
«Il Settecentesimo inaugurato al Castelgrande di Bellinzona con la tenda di Mario Botta è stato un’immensa affermazione delle minoranze italiana, francese e romancia ed è stato un momento privilegiato per riflettere sui valori che 45 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale tenevano assieme la Svizzera. Il boicottaggio da parte del mondo intellettuale, da Frisch in avanti, che temeva una semplice celebrazione dei miti proprio durante lo scandalo delle schedature, è stato provvidenziale per la discussione. In Svizzera c’erano vecchie croste che i Paesi coinvolti nel secondo conflitto mondiale hanno superato traumaticamente. In Svizzera sono state superate con il Settecentesimo. Il giorno dell’inaugurazione, il 10 gennaio 1991, sul viale della Stazione a Bellinzona c’era una marea di gente. Il commissario della Polizia federale per motivi di sicurezza non voleva assolutamente far sfilare il Consiglio federale e gli alti ufficiali dell’esercito. Questo era inaccettabile e dopo le mie rimostranze e l’intervento del consigliere federale Flavio Cotti la cosa si risolse. Fu un tripudio, per la prima volta dopo molti anni la Svizzera ufficiale veniva applaudita. Il Settecentesimo è servito a ridefinire i rapporti tra gli svizzeri».

La cultura è un motore di crescita potente del territorio per essere trainanti e non solo a rimorchio

Trent’anni dopo il rapporto tra gli svizzeri andrebbe ancora ridefinito? Che cosa indebolisce la coesione nazionale?
«Rispetto ad allora oggi c’è una ricerca molto più attiva per conoscersi tra svizzeri delle diverse culture, grazie anche al fatto che si parlano le lingue. Ancora una volta le giovani generazioni sono molto più aperte a ricevere stimoli, c’è un nuovo modo di intendere l’identità svizzera tra le spinte globali e i nostri valori fondamentali. Un pericolo lo vedo nel mondo della formazione con la concentrazione sulle scienze esatte, matematica e ingegneria ad esempio, mentre la chiave per conoscersi meglio resta la cultura. Non deve essere un’utopia che un ingegnere della Svizzera italiana conosca Montaigne, che uno svizzero tedesco conosca Dante e magari anche Plinio Martini, che uno romando legga Goethe».

Quali sono i valori fondamentali che ancora oggi reggono la Svizzera e che dobbiamo difendere?
«Sono sempre gli stessi. Noi siamo e dobbiamo continuare a essere democratici dove tutto parte dal basso, repubblicani e federalisti capaci come nessun altro di mantenere l’equilibrio tra forze centrifughe e forze centripete e valorizzare l’individuo».

I nostri rapporti con l’Unione europea, che sono in una fase di stallo, restano divisivi nel Paese. Come conciliare i nostri valori fondamentali con le relazioni con Bruxelles?
«Abbiamo certamente una storia di cui tener conto e nella mentalità svizzera rimane legittimamente una certa prudenza. L’evoluzione del processo dei nostri rapporti con l’UE sarà lenta ma inevitabile. Continuo con il mio mantra: le nuove generazioni porteranno all’apertura. Chiaramente c’è un prezzo da pagare, un pezzetto di autonomia lo dovremo necessariamente cedere, ma se vogliamo essere onesti con noi stessi dobbiamo ammettere che già oggi su molte questioni ci adeguiamo a quanto fa l’Unione europea. Siamo nel mezzo di un continente, non siamo più nel 1291. Ripeto: l’evoluzione non potrà essere rapida e capisco le reticenze per esempio sulla burocrazia di Bruxelles. Ma non possiamo stare lontano dall’Europa. Come in tutto, molto dipenderà dalle relazioni personali che s’instaureranno, vale nel piccolo per lo sponsoring del Locarno Film Festival che esige fiducia tra le persone e vale anche per la diplomazia. Noi abbiamo ottimi diplomatici che sanno costruire queste relazioni e creare fiducia».

Abbiamo anche una classe politica all’altezza? Sempre più si dice che la Svizzera non ha più politici carismatici.
«Oggi è diventato molto più difficile fare politica perché è cambiato il rapporto fra la politica e la comunicazione. I Cotti, i Delamuraz, i Petipierre, i Villiger, i Ritschard, gli Hürlimann, i Furgler per citarne alcuni, operavano con autorevolezza e molta discrezione nella comunicazione. Attorno a loro avevano anche una piccola aura di mistero che oggi è frantumata completamente, perché il sistema della comunicazione spiattella tutto subito, anche il più piccolo dettaglio. Quando hai un’inflazione della comunicazione, anzi una diarrea della comunicazione che non ha più delle priorità, tutto si appiattisce. Indipendentemente dalle capacità delle persone non c’è più la possibilità di spiegare i concetti con calma e tranquillità. Per questo un tempo era decisamente più facile essere grandi politici».

In questi ultimi vent’anni la Svizzera ha vissuto due clamorosi disastri che restano delle ferite aperte nella storia patria perché sono crollati dei simboli: il fallimento di Swissair e la fine di Credit Suisse. Che cosa ha provocato questi disastri?
«Al fallimento di Swissair si è arrivati per colpa di una sciagurata strategia suggerita da tecnici e manager con totale mancanza di cultura. Siamo al discorso di prima. Per Credit Suisse credo sia stato un problema di mentalità con dirigenti operativi, specie americani, portati a rischiare molto, ma considero pure il sistema dei bonus problematico. Banchieri che conosco personalmente dimostrano tutti senso e dimensione culturale, si pensi al generoso sponsoring culturale. Due esempi ticinesi a me vicini: Sergio Ermotti, partito dalla gavetta e arrivato al top, e Marco Netzer vicepresidente dell’Orchestra della Svizzera italiana».

Dopo l’esperienza del Settecentesimo lei è stato amministratore delegato di Migros, creatura di un visionario e politico che portava avanti l’idea di un capitalismo sociale, e in seguito vicepresidente del potente gruppo editoriale Ringier. Che Svizzera ha visto da queste due posizioni?
«Di Migros non posso che parlare bene perché è un’azienda che ha avuto e ha un grande senso di responsabilità verso i consumatori. L’idea di cooperativa rispecchia perfettamente l’idea di Svizzera che fa l’interesse dei suoi cittadini. Da Ringier l’esperienza è stata inebriante in un mondo giornalistico che non conosceva ancora la rivoluzione digitale. Lì ho imparato pure uno stile di discussione diverso da quello di Migros, dove il sistema era abbastanza rigido e dopo una decisione tutti dovevano marciare nella stessa direzione. Da Ringier il confronto era continuo con menti abituate alla dialettica, tutto era più complicato ma anche stimolante. Quando l’editore Raimondo Rezzonico nel 1997 ha chiesto a Ringier di entrare nel settimanale “Il Caffè” io da ticinese non potevo dire di no, facendo diventare Ringier nazionale. Nano Bignasca vide questa mossa come concorrenza al suo “Mattino” e ha mobilitato gli altri editori. C’era la paura che con l’arrivo di Ringier il mercato pubblicitario diventasse più piccolo. In realtà è diventato più grande a beneficio di tutti. Le cifre lo hanno dimostrato. Bignasca vide l’operazione anche in chiave politica, anche se poi ci siamo riconciliati. Del resto, il Nano, anni prima, nel 1991, mi chiese di candidarmi al Consiglio degli Stati, ma io ero, sono e resterò liberale».

Le nuove generazioni sono aperte al mondo e hanno un modo diverso di intendere l'identità nazionale

A proposito di rapporti con la politica, negli anni Novanta lei è tornato all’Ente turistico ticinese come presidente, costretto però a dimettersi per una feroce polemica politica sull’opportunità di una sovrapposizione di ruoli e di interessi. Qualche anno dopo avrebbe ripreso quella presidenza, ma lo smacco è stato cocente. Cosa le resta di quella sconfitta?
«Il tentativo è stato quello di indurmi a chiedere a Ringier di lasciare il Ticino, ma non mi conoscevano bene. Non ho ceduto di un millimetro. Per evitare di mettere in difficoltà Marina Masoni, l’allora direttrice del DFE che mi aveva cercato per la presidenza dell’ETT e che mi difese ad oltranza, diedi le dimissioni. È stato un brutto momento a livello personale, ricordo che un paio di amici incontrandomi cambiarono strada, ma quello che non ti uccide ti rafforza. E alla presidenza dell’ETT sono poi tornato con Laura Sadis a capo del DFE ed è stato ¨certo un bel riscatto».

Nella primavera del 2008 lei è stato chiamato ad assumere il ruolo di mediatore nello sciopero alle Officine FFS di Bellinzona attuato per opporsi all’intenzione della dirigenza ferroviaria di chiudere baracca e burattini. Quali insegnamenti sono usciti da questa vicenda che ha segnato la storia ticinese e anche nazionale?
«L’insegnamento è davvero molto semplice: avere cultura storica, riuscire a creare fiducia ed essere disponibili al dialogo. L’allora CEO delle FFS Andreas Meyer, che conoscevo, mi anticipò che sarebbe andato alle Officine ad annunciare un drastico ridimensionamento. Gli dissi di non farlo perché avrebbe scatenato la rivoluzione in Ticino. Gli spiegai la dimensione storica e culturale della ferrovia del San Gottardo e quindi delle Officine, ma lui, appena rientrato da un’esperienza in Germania dove il management è dittatoriale, andò avanti per la sua strada e fu un disastro totale con la rivolta dell’intero Ticino. Purtroppo, la situazione finì in un vicolo cieco. Eravamo alla vigilia di Pasqua e Matteo Pronzini mi informò che gli scioperanti intendevano bloccare la ferrovia. Allora ero presidente dell’ETT e non potevo accettare una cosa simile. Riunii al Bigorio Meyer con i suoi dirigenti e Pronzini con il comitato di sciopero. Fu un muro contro muro, ma almeno venne scongiurato il blocco della ferrovia con l’impegno di ritrovarsi. Il dialogo rimaneva comunque molto fragile e per questo chiesi al vescovo Pier Giacomo Grampa di modificare la dura omelia sulle FFS che intendeva fare alle Officine il giorno di Pasqua. Mi ascoltò e fu un primo passo verso la riconciliazione anche se le posizioni delle parti restavano rigide. Fu in quella fase che il consigliere federale Moritz Leuenberger mi incaricò di portare avanti la discussione e di trovare la soluzione. Di nuovo è un tipico esempio di come le cose non vengono risolte con i principi ma con le persone disposte a dialogare. Le cose furono possibili perché Meyer ebbe fiducia in me e io ebbi contatti con Matteo Pronzini, Giuseppe Sergi, Werner Carobbio e Marina Carobbio. Alla fine ci si trovò a Berna, io portando un ramoscello d’ulivo. La persona chiave quel giorno fu il co-presidente di UNIA Renzo Ambrosetti, fu lui che nell’ultimo miglio riuscì a trovare la soluzione. Da lì prese poi avvio la seconda tavola rotonda presieduta da Franz Steinegger».

Da presidente del Locarno Film Festival ha insistito molto sul concetto di spazio di libertà da difendere, immagino compresa la libertà di criticare il Festival. Ma chi e come nella nostra società vuole limitare la libertà?
«La questione della libertà per me è fondamentale insieme alla parresia, cioè al dovere di dire tutto quello che ritieni giusto dire. Oggi la libertà e la democrazia sono minacciate con la responsabilità anche della comunicazione che rimescola tutti i valori. Nessuno lo sa, ma durante questi 23 anni al Festival abbiamo avuto vari interventi, in parte durissimi e minacciosi, di ambasciate straniere alle quali non piaceva un determinato film, delegazioni che sono venute a protestare, gruppi economici che hanno cercato di far pressione. Nessuno ha avuto udienza. Nessuno. Questo deve continuare a essere il Locarno Film Festival, uno spazio che difende con ogni mezzo la libertà».

Negli ultimi tempi, preparando l’uscita dal Locarno Film Festival, ha ripetuto spesso il motto dei patrizi bernesi: servire e sparire. Non è un esercizio facile, soprattutto in un cantone di immarcescibili onnipresenti. Lei in che modo volterà questa pagina importante della sua vita?
«Ho servito il Festival del Film per 23 anni e adesso è giusto sparire, come ho fatto per tutte le altre esperienze della mia vita professionale. Sparire dal Festival non significa comunque diventare un fantasma. I valori che ho sempre difeso li difenderò anche in futuro. Poi è chiaro che la vita ha i suoi cicli: c’è la fase nella quale impari, quella dove insegni e quella dove contempli. Adesso entrerò nella fase della contemplazione che mi permetterà di essere più testimone che protagonista».