«Ospedali non senza speranza, ma attesi a sfide e cambiamenti»
Sulla stampa d’oltre San Gottardo sono emerse alcune notizie piuttosto allarmanti per il settore ospedaliero, dalle ormai croniche carenze a livello di personale sanitario sino alle difficoltà di ordine finanziario. Abbiamo allora contattato Alessandro Bressan, direttore dell’Ospedale di Bellinzona, membro di direzione dell’EOC, ma pure membro del comitato di H+, l’associazione mantello degli ospedali svizzeri, per fare un punto della situazione.
Direttore, partiamo dal tema della carenza di personale. Non è una novità in termini assoluti, ma ogni volta che lo si legge è comunque preoccupante. Qual è la situazione in Svizzera e in Ticino? Ed è corretto preoccuparsi?
«Sicuramente la mancanza futura di personale qualificato è un tema rilevante e fonte di preoccupazione nel settore sanitario. Al momento, in Svizzera non riusciamo a formare sufficienti medici e infermieri per coprire il fabbisogno di una popolazione che cresce - verso i 10 milioni di abitanti - e invecchia, con un fabbisogno di cure specialistiche sempre maggiore. In Ticino siamo più fortunati grazie a un ottimo programma di formazione per infermieri e alla facoltà di medicina umana all’USI di Lugano. Riusciamo infatti a formare infermieri che poi rimangono nel nostro cantone a lavorare, venendo così incontro alle necessità delle istituzioni. In Svizzera interna, invece, già da anni c’è una forte competizione tra le varie strutture per assicurarsi un sufficiente personale clinico qualificato, e questo porta a un aumento dei costi totali dovuto a una spirale dei salari che tende verso l’alto. In Ticino, in maniera più spiccata che in altri cantoni, soffriamo piuttosto di un esodo di infermieri ben formati e qualificati dalle strutture ospedaliere verso le cure a domicilio, una tendenza che anche il Consiglio di Stato ticinese ha riconosciuto e che intende adesso frenare».
Al netto della tendenza generale e delle differenze citate, vi è anche la vicinanza con l’Italia.
«Sì, nel bene e nel male il Ticino è una regione abbastanza “protetta”, sia per una componente linguistica che per una componente geografica».
Sempre in termini generali, quando le professioni sanitarie hanno smesso di essere attrattive?
«Il lavoro dell’infermiere è e rimane un lavoro attrattivo, importante e ben riconosciuto. Negli ospedali e nelle cliniche svizzere le infermiere e gli infermieri godono di grande apprezzamento e il loro lavoro è essenziale per garantire le buone cure al paziente. Rimane un lavoro comunque fisicamente e psicologicamente impegnativo, dove la conciliabilità vita privata e lavoro richiede più organizzazione a causa della turnistica (lavoro notturno, nei fine-settimana e durante i festivi). Agli infermieri è richiesto molto - competenza clinica, empatia, comunicazione attiva con pazienti e famigliari, capacità di risolvere problemi, disponibilità e flessibilità - ed è sempre più importante apprezzare chi questo lavoro lo porta avanti con passione e dedizione. La gestione del personale infermieristico richiede apertura a nuove idee, coinvolgendo chi lavora al letto del paziente per cercare di alleggerire il più possibile le condizioni lavorative per vivere con serenità questa bellissima professione. L’esperienza di quasi tre anni di COVID ha permesso a tutta la popolazione di apprezzare ancora di più la vita famigliare e sociale. Lavorare a turni sta quindi probabilmente pesando ancora di più di prima. Anche il lavoro con i pazienti richiede maggiore comunicazione in questi tempi poiché, giustamente, le aspettative dei pazienti stessi sono cambiate. Questi aspetti richiedono una riflessione sull’identità del ruolo infermieristico che in questi anni è sicuramente cambiato. Non ha perso di attrattività perché rimane una professione che può fare la differenza nella vita delle persone che cura. Si tratta unicamente di ritrovare l’immagine dell’INFERMIERE ai nostri giorni. Ci stiamo lavorando tutti, dalle scuole alle istituzioni, con il sostegno della politica».
Al contempo, la situazione finanziaria degli ospedali svizzeri è altrettanto preoccupante. Bene si evince dall’inchiesta di KPMG pubblicata dalla NZZ. È tutto parte dello stesso problema?
«La situazione finanziaria degli ospedali svizzeri, in effetti, è in costante e continuo peggioramento, e questo non può che preoccuparci parecchio e spingerci a trovare altre soluzioni, rispetto a quelle odierne, per uscire da questa situazione insostenibile a lungo termine. Da un lato la popolazione invecchia di più e meglio rispetto al passato, dall’altro lato nuove terapie e medicamenti costano di più, il passaggio da trattamenti stazionari ad ambulatoriali richiedono una revisione e un forte snellimento dei processi per evitare perdite finanziarie, i costi di gestione - del personale ed altri costi - aumentano di anno in anno, le tariffe stazionarie e ancora più quelle ambulatoriali non coprono i costi. Questi sono alcuni elementi principali che portano gli ospedali ad accumulare sempre più perdite. Quindi la mancanza di personale qualificato o l’esodo di infermieri anche verso altre professioni - un’altra conseguenza negativa della pandemia - non sono comunque gli unici aspetti o le sole cause della situazione finanziaria attuale».
Ecco, ha citato la pandemia. Davvero ci ha lasciato quindi una così pesante eredità?
«Sì, come detto, la pandemia di COVID è stata un cambiamento epocale e ha dato un’ulteriore accelerata a problemi strutturali pre-esistenti nel mondo della sanità. È stato un periodo intenso, abbiamo imparato molto e le persone hanno riflettuto sulla propria esistenza, su quello che vogliono fare del proprio futuro. Ne siamo usciti e stiamo guardando avanti, però le ferite e le ammaccature rimangono. Il ricordo è ancora vivo e le collaboratrici e collaboratori non sono più sempre disposti a sacrificarsi come in passato. Di per sé è un aspetto positivo di evoluzione delle professioni non solo sanitarie, uno sviluppo di cui ne stiamo tenendo sempre più conto. Ecco perché ad esempio in EOC abbiamo lanciato programmi e iniziative specifici per aumentare il benessere dei collaboratori e l’accoglienza di pazienti e famigliari, oltre a cercare di rinforzare la collaborazione con i medici del territorio quali partner fondamentali per le cure integrate al paziente».
Calano le entrate, aumentano le spese, il lavoro diventa meno attrattivo, per renderlo più attrattivo occorrono nuovi investimenti o nuove idee. Siamo all’interno di un circolo vizioso?
«Non proprio. Siamo di fronte a sfide e cambiamenti importanti che dobbiamo saper affrontare e gestire. Possiamo calibrare ancora meglio l’offerta sanitaria in ogni sede ospedaliera, migliorare i percorsi clinici e i processi a favore dei pazienti, implementare la digitalizzazione di processi e informazioni che vada a ridurre il carico burocratico del personale curante e tanto altro. Non siamo senza speranza, bisogna però che tutti insieme - popolazione, strutture sanitarie, casse malati, politica, medici del territorio - lavorino a migliorare questa situazione. Vogliamo anche mantenere nel tempo il livello qualitativo del nostro servizio sanitario nazionale che rimane di primordine se confrontato anche con altri Paesi».
La concentrazione di ospedali, o di alcuni singoli settori o aspetti, può essere determinante?
«Gli ospedali oggi pesano sul costo totale della sanità per circa il 25%, i costi maggiori sono quindi altrove. Per EOC la concentrazione di ospedali e di sedi in Ticino è avvenuta e sta avvenendo in maniera naturale e organica. Non possiamo ormai più permetterci di fare tutto dappertutto - vedi specializzazione della medicina - e d’altro canto bisogna essere vicini alla popolazione e fare la cosa giusta al posto giusto, curando la prossimità territoriale. Direi che serve una calibrazione attenta dell’offerta sanitaria nelle diverse regioni. Questo processo migliora la sicurezza e la qualità delle cure per i pazienti così come l’efficienza ed efficacia di processi e procedure. È una tendenza del tutto inevitabile e un processo di trasformazione che va ben accompagnato e ancor meglio gestito. A livello svizzero probabilmente gli spazi di manovra per le concentrazioni sono più ampi e hanno accumulato maggiore ritardo».
Di tanto in tanto trapela una sorta di previsione: la Saleggina diventerà l’ospedale cantonale di riferimento. Che cosa c’è di sensato e che cosa di errato in questa previsione?
«L’Ente ospedaliero sta portando avanti un masterplan di investimenti e ristrutturazioni che toccano tutti gli ospedali cantonali (Mendrisio, Locarno, Lugano, Bellinzona, Novaggio, Faido). Questi investimenti ridanno un nuovo ciclo di vita agli ospedali. Per i prossimi lunghi decenni la strategia di presenza sul territorio di EOC non cambierà. Se la politica ticinese - Parlamento e Consiglio di Stato - vorrà nel frattempo lavorare su altri scenari futuri lo potrà fare. Al momento non è tema di discussione».
Nell’analisi di KPMG già citata, si parla anche di un ritardo nel ramo della digitalizzazione. È così anche per il Ticino e per la sua rete ospedaliera?
«Tendenzialmente da un lato possiamo riconoscere che in EOC e, penso, in Ticino siamo in ritardo con la digitalizzazione, dall’altro bisogna implementare la digitalizzazione che ha senso e che porta a reali benefici per l’utenza (pazienti, collaboratori, partner esterni, uffici amministrativi preposti). I progetti di digitalizzazione richiedono forti investimenti e un grande impiego di risorse umane ed energie. Troppo spesso purtroppo essi poi non raggiungono i benefici previsti e lasciano deluse e demotivate le persone. Bisogna fare scelte molto ben ponderate, che devono venir portate a termine con efficacia e coerenza. L’integrazione dell’informazione clinica del paziente tra i diversi attori - vedi cartella informatizzata del paziente - rimane prioritaria. L’utilizzo di nuove tecnologie e in particolare di software di intelligenza artificiale cambierà e spero migliorerà sensibilmente il lavoro del personale curante in futuro. Sono tutte opportunità da cogliere e da gestire bene a favore dei pazienti».
Ultima domanda, da un milione di dollari: come se ne esce? Come si esce da questa situazione?
«Non c’è una formula magica o una soluzione/azione che risolva tutti questi problemi in un sistema complesso come quello sanitario. Se ne può uscire sviluppando una visione e una strategia comuni tra popolazione, professionisti sanitari, politici e direzioni ospedaliere con obiettivi chiari e magari anche che comportino alcune rinunce locali/regionali a favore di un bene più alto e ampio. Se non sappiamo pensare diversamente e cambiare lo stato delle cose, non potremo aspettarci grandi miglioramenti. Credo anche che la sanità stia diventando sempre di più un bene strategico e fondamentale per il nostro benessere di cittadini e pertanto vada preservata sempre meglio. Gli interessi in gioco sono tanti ma bisogna avere la capacità di trovare soluzioni condivise che puntino a mantenere la qualità delle cure a costi che siano sostenibili».