Lugano

Perché mai dovremmo andare a Brè?

Sesta puntata dedicata al progetto della Città per valorizzare i quartieri – La «funi», i tronchi che scivolavano con la slitta lungo la "Sbrüssighéra", i fiori venduti in città e i "trombétt dala mòrt"
La strada per Brè fu costruita fra il 1910 e il 1912. © Archivio Storico della Città di Lugano
Giuliano Gasperi
26.04.2025 06:00

«Sa va mía a Brè se a gh’è mía un gran perché». Potremmo anche chiuderla qui, citando il detto che gli abitanti hanno affibbiato al loro quartiere per la sua posizione non facilmente raggiungibile. Un «gran perché» non ce l’abbiamo neanche noi, se non la curiosità di aprire la mappa di comunità realizzata dalla gente del luogo con l’aiuto della Città e pubblicata sul sito luganocultura.ch. Ne è valsa la pena, come sempre (finora abbiamo scritto delle mappe di CadroSonvicoVilla LuganeseGandria e Castagnola).  

A proposito di raggiungibilità, un anno decisivo per il villaggio fu il 1912, quando terminò la costruzione sia della strada cantonale, sia della seconda sezione della funicolare, quella fra Suvigliana e la vetta. I due nuovi collegamenti, accompagnati dall’apertura del Kulm Hotel Monte Brè, proiettarono il quartiere nel mondo del turismo. La «funi», com’era affettuosamente soprannominata, la usavano in realtà anche i residenti, che avevano contribuito a costruirla, come la strada. Il costo tuttavia non era indifferente: così, fino agli anni Sessanta, si era soliti scendere a Lugano a piedi o in bici e poi risalire con il convoglio. Attorno, rispetto ad oggi, c’erano molte meno case e molti più pendii terrazzati su cui venivano coltivati frumento, patate e altri alimenti. Fra di essi spicca la carota gniff, una varietà di colore violaceo e dal gusto dolciastro che alle nostre latitudini, probabilmente, arrivò grazie agli emigranti che dalla Francia ne importarono le sementi. L’agricoltura, come altrove, andava di pari passo con l’allevamento, di cui sulla mappa non mancano testimonianze: come il Fontanín di asen, una fontana con acqua sorgiva che serviva ad abbeverare gli asini usati per il trasporto della merce; oppure il Cimitéri di cavri, dove venivano gettate le carcasse degli animali da reddito morti. Tutto lavoro. Basti pensare che almeno fino agli anni Cinquanta, nel nucleo di Brè, gli edifici come stalle, fienili e legnaie erano più numerosi rispetto alle abitazioni. Fuori da esse venivano spesso posate delle panchine dove uomini e donne appoggiavano le gerle, liberandosi finalmente dal loro peso. Non era raro nemmeno trovare dei ceppi utilizzati per tagliare la legna: un altro elemento prezioso a quei tempi. Sulle pendici del monte, un ripido sentiero selciato denominato Sbrüssighéra serviva per fare scorrere a valle i tronchi dopo averli fissati su apposite «slitte» chiamate .

Quello scambio con Gandria

Il rapporto tra la natura e le persone è centrale nella mappa di comunità di Brè. In essa viene reso omaggio alla figura di Agnese Monti, una donna che si recava settimanalmente al mercato di Lugano per vendere i ciclamini raccolti nei dintorni del villaggio. Nel cimitero del paese, infatti, è ritratta proprio con un mazzo di questi fiori. Nei boschi di Brè crescono anche le cosiddette rose di Natale, che alcune donne, fra cui una soprannominata Sturna, raccoglievano per poi venderle, anch’esse, al mercato di Lugano. Il territorio boscoso di Brè regala anche numerose specie di funghi. Oltre ai porcini, gli abitanti del luogo apprezzano i fung öv e i trombétt dala mòrt, chiamati così perché spuntano spesso fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, quando si celebrano i defunti. I prodotti alimentari erano anche al centro di collaborazioni fra i contrabbandieri provenienti dal Ceresio italiano e gli abitanti di Brè. Capitava, ad esempio, che i primi nascondessero la merce in luoghi concordati e che i secondi, in seguito, andassero a recuperarla, facendo poi da intermediari con gli acquirenti finali. In tema di accordi e scambi, si dice che Brè abbia ottenuto dai vicini di Gandria una statua di Sant’Antonio in cambio di una damigiana di vino. Il motivo? A un certo punto in paese non nascevano più maschi, così gli abitanti avevano deciso di costruire una cappelletta per chiedere un’inversione della temuta tendenza.

La sedia delle streghe

Un'altra cosa preziosa era l’acqua, soprattutto quella corrente. Un detto popolare recitava «aqua che a fai tré tóm», cioè tre cadute, «pò bévala tücc i galantóm». Qualcuno ricorda che i figli della famiglia che abitava nell’edificio del Grotto del Ritorno, quando rientravano da scuola, si fermavano a una fontana per riempire alcuni fiaschetti d’acqua, dal momento che la loro abitazione ne era sprovvista. Non lontano da là, lungo il ripido versante che si tuffa nel Ceresio, in località Nonato, la mappa segnala un luogo chiamato Sass di strii. Si crede che i fori presenti su quel masso servissero alle streghe per appoggiarvi una sedia. Più in alto, verso il sentiero che conduce al monte Boglia, c’è invece il Sassaróss, un promontorio così chiamato perché quando ci batteva il sole, si colorava di rosso. Era ritenuto anch'esso un luogo d’incontro delle streghe.

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