Picchiava e segregava la compagna: condannato (e arrestato dopo il processo)
Quella emersa oggi in aula è una storia triste, di violenza e sottomissione. Il protagonista in negativo è un 39.enne kosovaro domiciliato nel Luganese, condannato a 3 anni e 8 mesi da espiare dalla Corte delle assise criminali. L’uomo, in sintesi, era accusato di aver minacciato e violentato la moglie tra il 2011 e il 2016 e di averla segregata in casa fino all’agosto del 2018. Dal canto suo, il 39.enne ha sempre respinto ogni addebito e il dibattimento, di conseguenza, è stato indiziario.
Un padre padrone
Per l’accusa, rappresentata dalla procuratrice pubblica Pamela Pedretti, il 39.enne ha abusato e terrorizzato la donna, sposata nell’ambito di un matrimonio combinato tra le rispettive famiglie in Kosovo. Un orco, un padre padrone che oltre ad aver violentato la moglie, la minacciava insieme alle figlie. «Ed è solo nel 2018, dopo l’ennesimo episodio di violenza, che la donna si è ribellata, fuggendo insieme alle due figlie denunciandolo. Per farlo, però, ha dovuto aspettare che la famiglia si fosse trasferita a Neuchâtel, dove viveva il fratello. Se fosse restata a Lugano, difficilmente lo avrebbe fatto». La procuratrice ha citato diversi episodi, da una violenza carnale avvenuta nel marzo nel 2015, in occasione del compleanno della donna, a diversi episodi di violenza fisica, con la malcapitata che era stata addirittura picchiata con un PC. E dalla violenza è stata concepita la secondogenita della coppia. «Il marito voleva avere figli per beneficiare delle prestazioni assistenziali», ha tuonato Pedretti in aula. Di qui la richiesta di una pena detentiva di 4 anni e mezzo da espiare. «L’imputato ha fallito come uomo e come padre», le ha fatto eco la patrocinatrice della moglie e delle due figlie, l’avvocato Deborah Gobbi. «Ha voluto i figli solo per il vile denaro. La vittima è una donna che ora merita giustizia, anche se nessuno le ridarà i giorni persi».
La vittima? «Non è credibile»
Di parere diametralmente opposto, come detto, la difesa. Nel corso dell’interrogatorio, il 39.enne ha risposto – in un italiano stentato e denotando difficoltà nel comprendere appieno le domande – negando qualsiasi episodio violento. «Perché sua moglie mente?», lo ha incalzato Pagnamenta. «Non lo so», la laconica risposta del 39.enne. Nella sua arringa, l’avvocato difensore Yasar Ravi si è battuto per il proscioglimento e ha contestato la credibilità della ex moglie (i due, nel frattempo, hanno divorziato). «La vittima non è credibile, il suo racconto non è lineare e presenta diverse incongruenze. Non possiamo accettare delle dichiarazioni del genere, a fronte di accuse così importanti». «Se effettivamente viveva in un clima di terrore per così tanti anni perché non ha mai denunciato?», ha argomentato il legale, che ha pure evidenziato alcune incongruenze nel corso delle deposizioni, per esempio sul numero di colpi che le sono stati inferti». Per la difesa il clima a casa non era dei migliori, ma ciò era dovuto al fatto che l’uomo, «che denota notevoli difficoltà cognitive», non riusciva a mantenere la famiglia. «Le prospettive di vita migliori non sono arrivate». Di qui insomma l’ipotesi che la donna avesse, di concerto con il fratello, dapprima ottenuto il permesso di domicilio per poi letteralmente buttar fuori di casa il marito.
«Colpa grave»
La tesi non ha per nulla convinto la Corte presieduta dal giudice Pagnamenta, che anzi ha confermato praticamente in toto l’atto d’accusa e gli addebiti principali di violenza carnale e sequestro di persona. «La versione della vittima è stata ritenuta lineare, coerente logica e disinteressata». «Certo – ha ammesso Pagnamenta – ci sono state alcune incongruenze, ma capita in quasi tutti gli incarti di questo genere». L’imputato, invece, «è incappato in molteplici contraddizioni, ha agito con egoismo anteponendo la ricerca del proprio piacere e l’imposizione del proprio volere al benessere della famiglia. È vero, ha limiti cognitivi ma la perizia ha sottolineato che su questo aspetto ci marcia un po’ su». La colpa del 39.enne è dunque stata ritenuta grave, di qui la condanna a 3 anni e 8 mesi e all’espulsione facoltativa dalla Svizzera per 5 anni. Visto il pericolo di fuga, il giudice ha ordinato la carcerazione di sicurezza e l’arresto dell’imputato, per il quale sono scattate le manette ai polsi al termine del dibattimento. È praticamente certo il ricorso in Appello da parte della difesa.