Processo

Profili falsi e minacce per rubare l’intimità ai minori

Cinque anni di carcere a un uomo della regione il quale, sui social, adescava ragazze e ragazzi tra i 13 e i 15 anni – Una cinquantina di vittime gli hanno inviato foto o video di natura sessuale – Il ricatto: «Se non lo fai dico tutto ai tuoi genitori o ai tuoi amici»
Il condannato utilizzava soprattutto Instagram. © Shutterstock
Stefano Lippmann
04.02.2022 15:49

«Grooming». Una parola inglese che, però, racchiude quanto di più negativo possa presentare a ragazzine a ragazzini la rete. I social network, le chat, WhatsApp. Applicazioni di svago, socializzazione e divertimento che possono, però, nascondere insidie. Come, appunto, il «grooming». Si tratta di una tecnica di manipolazione psicologica, che gli adulti utilizzano online per adescare bambini e adolescenti, indurli a superare le resistenze emotive e instaurare una relazione intima o magari anche sessualizzata. Basta inserire nei motori di ricerca parole quali «adescamento di minori» e si scopre quanto il fenomeno sia presente. Anche alle nostre latitudini.

Come nel caso approdato quest’oggi davanti alla Corte delle assise criminali presieduta dal giudice Amos Pagnamenta. Alla sbarra un quasi 33.enne domiciliato nel Luganese – difeso dall’avvocato Marco Cocchi – che per quasi cinque anni ha ripetutamente adescato minori allo scopo di estorcere immagini e video con chiari (e anche espliciti) atti sessuali. L’uomo, arrestato nel novembre del 2020, ha sin da subito riconosciuto i fatti e la Corte, oggi, con procedura di rito abbreviato lo ha condannato a cinque anni di reclusione. Ripetuta coazione sessuale, ripetuti atti sessuali con fanciulli e ripetuta pornografia i reati riconosciuti per i quali dovrà scontare pena.

La «caccia» sui social

Il terreno di «caccia» dell’uomo era soprattutto Instagram. Le vittime, in larga parte, ragazzine a ragazzini tra i 13 e i 15 anni.

Nelle sedici pagine dell’atto d’accusa stilato dalla procuratrice pubblica Pamela Pedretti, titolare dell’inchiesta, soltanto per il primo reato – ripetuta coazione sessuale – si contano 46 vittime: 30 ragazzine e 16 maschi. Il modus operandi era pressoché identico. Il 33.enne, usando diversi profili, si spacciava per un quindicenne o poco più. «Perché si faceva passare per una persona più giovane?» ha chiesto il giudice Pagnamenta. «Per approcciare meglio una conversazione in ambito sessuale», la risposta dell’imputato.

Già, con un falso profilo da adolescente entrava in contatto con le vittime – soprattutto italiane – e nel giro di pochi messaggi, si legge nell’atto d’accusa, portava immediatamente la conversazione «su tematiche di natura sessuale, in particolare chiedendo loro di inviargli fotografie dei propri genitali, ma anche di masturbarsi». Quando gli adolescenti non davano seguito alle sue richieste – o quando smettevano di farlo – entravano in gioco le minacce o le pressioni psicologiche. La più «semplice», ma efficace: «Divulgo il contenuto della chat, comprese le immagini e i video di natura sessuale, ai tuoi genitori». Oppure alla polizia. O ancora: «Li invio ai tuoi contatti social, o ai tuoi amici». In alcune circostanze l’uomo ha addirittura fatto leva su suoi presunti peggioramenti di salute, pur di ottenere quanto richiesto. Minacce che gli hanno permesso, appunto, di agire per quasi cinque anni e indurre quasi una cinquantina di ragazzini a produrre e inviargli fotografie delle parti intime, come pure video. E, in un paio di occasioni, anche di più.

La segnalazione

A dare il «la» affinché si riuscisse a mettere fine a tutto ciò è stata la famiglia di una ragazzina residente in Italia. Famiglia che, una volta scoperto quello che stava vivendo la propria figlia, ha segnalato il caso alla polizia postale la quale è riuscita a risalire al presunto autore dei reati.

A quel punto si è attivata anche l’Interpol e, tramite una rogatoria, si è riusciti ad arrivare all’uomo, residente nel Luganese.

Ma perché il 33.enne si è spinto a commettere questi reati? «Non l’ho ancora capito, non mi è chiaro – ha risposto a precisa domanda del presidente della Corte –. Non lo voglio attribuire a un fatto negativo che mi è capitato per giustificarmi». Però, ha spiegato in aula, «dopo che è finita una relazione mi sono chiuso in me stesso, ero depresso. Cercavo attenzioni».

Attenzioni che, però, sono finite con il commettere un crimine che gli è valso una condanna a 5 anni e all’obbligo di un trattamento ambulatoriale. «Una pena – ha chiosato il giudice Pagnamenta – adeguata alla colpa, particolarmente grave».