Società

Quando i videogiochi diventano una prigione: «Casi problematici anche in Ticino»

Scatta la class action contro Fortnite, accusato di dare «dipendenza come la cocaina» - Lo psicoterapeuta Dario Gennari: «C'è chi lascia lo sport o fa fatica ad andare a scuola, ma anche i genitori devono fare la loro parte»
©Epic Games
Michele Montanari
13.12.2022 10:15

I videogiochi tornano nell’occhio del ciclone. Dopo le numerose accuse di istigazione alla violenza (curioso che provengano spesso dagli USA, il Paese con le leggi sulla vendita di armi più blande del mondo occidentale), questa volta si discute sul fatto che possano creare dipendenza, addirittura come «la cocaina o l’eroina». È notizia recente, l’avvio di una class action, autorizzata da un giudice del Quebec, contro Epic Games, publisher del colosso videoludico Fortnite. Nel 2019, lo studio legale canadese Calex Legal aveva ricevuto il mandato da alcuni genitori convinti che i loro figli fossero «dipendenti» dal videogame a tal punto da non mangiare, dormire o lavarsi più. Insomma, Fortnite è stato paragonato alla droga, come già accaduto nel 2018 quando una bambina di 9 anni finì in psicoterapia per aver giocato troppo. Nella recente azione legale si parla di un 13.enne che ha passato 7.700 ore davanti allo schermo in meno di due anni o di un bambino di 10 anni che ha speso quasi 600 dollari in V-Bucks (la valuta utilizzata per comprare oggetti di gioco). Sono proprio queste meccaniche a rendere il videogame così rischioso per i giovani. Fortnite è gratuito, ma guadagna sulle microtransazioni: a volte si spendono pochi franchi per sbloccare semplici oggetti estetici (nella modalità Battle Royale) oppure pignatte (nella modalità Salva il mondo) il cui contenuto - fino a che non è stata lanciata una petizione che ha portato all'eliminazione di questo sistema - era ignoto e del tutto casuale. Tradotto, se si aveva fortuna, si trovava l’oggetto desiderato, altrimenti bisognava continuare ad aprire «scatole misteriose». Gli oggetti nel negozio virtuale di Fortnite hanno determinate scadenze e cambiano con una certa frequenza, in questo modo il giocatore è incoraggiato a tornare davanti allo schermo per non lasciarseli scappare (quasi sempre pagando con soldi reali). Il tutto condito da una grafica cartoonesca e colorata, decisamente attraente per i più giovani. E non solo: aggiungiamoci una community da milioni di giocatori, un senso di sfida continuo e la ricerca costante degli oggetti più «trendy» per personalizzare il proprio avatar. Fortnite non è il solo videogame a puntare sulle microtransazioni: queste meccaniche sono molto diffuse nei cosiddetti free-to-play, che, dietro alla loro gratuità, nascondono piccoli pagamenti, non obbligatori, ma spesso necessari a rendere un gioco più semplice (si parla di pay-to-win). Alcuni sono vere e proprie slot machine virtuali e il parallelo con il gioco d’azzardo è inevitabile. Quali sono i rischi? Come arginarli? E i genitori devono fare di più? Ne parliamo con il dottor Dario Gennari, psicoterapeuta dello studio medico Rete Operativa.

Dipendenza o problematica?

Secondo il dottor Gennari, è molto importante la terminologia da utilizzare quando ci si trova confrontati con i giovani che passano parte della loro vita davanti ai videogiochi: «Non si dovrebbero usare termini a sproposito, perché ci sono criteri clinici ben precisi per parlare di “dipendenza”. Non è solo questione di imprecisione, c’è anche un rischio: utilizzare quella parola, paradossalmente, allontana le persone da una presa di coscienza. Pensiamo al caso di Fortnite e la class action. È stato detto: “Fortnite crea dipendenza come la cocaina e come l’eroina”, già solo il fatto che si parli di due sostanze diverse, in modo così drammatico, oltre ad essere poco preciso, può portare chi ha un problema a prendere le distanze da esso». L’esperto continua con un esempio: «Pensiamo al consumatore di cocaina che dice: “Io non sono un tossicodipendente, perché non sono come quelli che finiscono in mezzo alla strada”, quando poi magari ha un grave problema che rientra nei criteri della dipendenza. In generale, senza criteri clinici ben precisi, è meglio parlare di “uso problematico dei videogiochi”».

Casi anche in Ticino

Anche in Ticino ci sono ragazzi che hanno rapporti complicati con i videogiochi. Ma arrivare ad una valutazione dal punto di vista della salute non è così ovvio. Anche perché il solo tempo passato davanti allo schermo non è per forza indicativo di una problematica o di una dipendenza. Lo psicoterapeuta di Rete Operativa sottolinea: «Quando si parla di videogame il fattore tempo è un indicatore importante, ma non determinante. Noi, ad esempio, abbiamo avuto un caso ben preciso di due fratelli: uno di loro, dal punto di vista del tempo, giocava molto di più, però andava a scuola, era integrato, faceva sport, aveva una ragazza e da parte sua non c’era alcun ritiro sociale. Suo fratello, invece, giocava meno, a livello di tempo, però aveva smesso con gli sport, faceva fatica ad andare a scuola o aveva risultati scarsi: nel suo caso c’erano degli elementi di ritiro sociale. Quindi il tempo è importante, ma non è il solo indicatore di una problematica».

Il problema emerge quando l’attività davanti allo schermo, che parte da qualcosa di ludico, diventa sempre più centrale all’interno della vita di un soggetto, a discapito di tutto il resto

Il ritiro sociale

Dunque quali sono gli indicatori per capire se si è di fronte a un caso di uso problematico dei videogiochi o addirittura di dipendenza? Il dottor Gennari spiega: «Il ritiro sociale è un criterio parecchio importante. Quali sono i segnali? I ragazzi cominciano a cambiare i propri comportamenti, tendono a uscire meno di casa, abbandonano le altre attività e fanno fatica ad andare a scuola, sino ad avere problemi di relazione all’interno della propria famiglia. Bisogna comunque prestare attenzione, perché magari questi comportamenti si sovrappongono all’adolescenza, dove, per definizione, la relazione con i genitori diventa difficile. Dobbiamo essere molto attenti ed analizzare tutto quello che emerge dal comportamento di un giovane. In generale, il problema si manifesta quando l’attività davanti allo schermo, che dovrebbe essere qualcosa di ludico, diventa sempre più centrale all’interno della vita di un soggetto, a discapito di tutto il resto. Da qui possiamo iniziare ad ipotizzare una dipendenza, in quanto tutto il resto diviene secondario». Il nostro interlocutore aggiunge: «I videogiochi hanno una capacità potentissima di assorbire l’attenzione. Quando ci si immerge nel mondo virtuale, ci si può dimenticare di mangiare, di bere e di dormire. Insomma, i bisogni primari passano in secondo piano. Ma, anche qui, non bisogna arrivare a conclusioni affrettate: quando abbiamo una grande passione, spesso succede di farsi coinvolgere fino a dimenticarsi dei bisogni primari. A questo punto, è importante capire quando si scivola da una passione a una situazione problematica, che può avere anche degli elementi di dipendenza».

Se la vita è migliore nel mondo virtuale

 C’è poi un altro elemento da aggiungere, che «complica ulteriormente la situazione». Secondo l’esperto, «il mondo virtuale - e questo vale per i videogiochi, ma anche per il web e i social - può  diventare una dimensione compensatoria rispetto ad una vita reale molto negativa. Se nella realtà si prendono solo “pesci in faccia” e le cose vanno male, mentre nei videogiochi si è bravi, si ha successo e si viene riconosciuti dagli altri, dove si preferirà passare il tempo? Ovviamente nel mondo virtuale, dove l’autostima dell’individuo si alimenta. Quando si arriva a queste situazioni, è difficile tornare al mondo reale: è un lavoro lento, perché la persona si è costruita la sua identità nel mondo virtuale, e se la togliamo da lì, può sprofondare nella depressione e nella disperazione. C’è tutto un lavoro metodico per riportare qualcuno ad una vita nel mondo concreto». Lo psicoterapeuta aggiunge: «Teniamo in considerazione, poi, che non è possibile fare una netta distinzione tra mondo reale e virtuale. Quest’ultimo è molto più reale di quanto possiamo pensare. Se perdo a un videogioco, le mie emozioni sono reali, e possono essere molto negative. Lo stesso vale per la nostra vita sui social network e sul web in generale».

Alcuni videogame utilizzano meccanismi psichici che conosciamo bene: sono quelli del gioco d’azzardo

I videogame come il gioco d'azzardo

Le meccaniche di Fortnite prevedono microtransazioni e un negozio virtuale con oggetti disponibili a tempo limitato. Alcuni videogame addirittura puntano sul fattore casualità (Fortnite, fino a qualche anno fa, lo faceva con le pignatte nella modalità Salva il mondo). Senza troppi giri di parole: ci sono videogame che funzionano come le slot machine (in Phantasy Star Online 2 è possibile comprare dei gratta e vinci per sbloccare oggetti estetici). Il dottor Gennari puntualizza: «Oggettivamente è un rischio, perché alcuni videogame utilizzano meccanismi psichici che conosciamo bene: sono quelli del gioco d’azzardo. Tra l’altro, portano alla creazione del pensiero magico: se apro una "scatola misteriosa" e trovo qualcosa di meraviglioso, comincio a mettermi in mente che con determinate procedure propiziatorie posso avere successo, ad esempio, il tal giorno, col sole o quando nevica. Inserire questi elementi in giochi indirizzati soprattutto ai giovani, se non ai giovanissimi, è un chiaro rischio. Questa è una problematica su cui lavorare a livello legislativo, e infatti la Svizzera si sta muovendo in questa direzione. Epic Games ha messo una soglia di entrata meno semplice per i giovanissimi, però, evidentemente, non è abbastanza. Bisogna sensibilizzare gli adulti e rendere consapevoli i giovani sui rischi. A livello normativo vanno create barriere che proteggano i minorenni, perché inserire il tipico meccanismo che vale per i giochi d’azzardo nei prodotti rivolti anche ai piccoli non va assolutamente bene. Non bisogna andare verso i divieti, ma regolamentare e proteggere i minori. Il meccanismo è troppo potente e può portare a gravi problemi».

La responsabilità dei genitori

Nessuno vuole puntare il dito contro i videogiochi, ma è giusto essere consapevoli dei rischi. I genitori devono sapere cosa mettono tra le mani dei propri figli, prima di dare la caccia alle streghe con azioni legali. Prendiamo il caso del ragazzino che ha speso 600 dollari su Fortnite: qualcuno gli avrà dato il permesso di utilizzare una carta di credito per fare acquisti, magari pensando che si trattasse solo di pochi spiccioli. Il problema è che una volta registrata, la carta può essere utilizzata più e più volte. I genitori spesso non sanno queste cose e per loro è più facile puntare il dito contro chi produce videogiochi. A tal proposito, il dottor Gennari afferma: «Non deve diventare una situazione da “noi contro di loro”. Questa è una dinamica che spesso osserviamo tra genitori e figli, e non porta da nessuna parte. Dobbiamo collaborare e trovare vie per migliorare la situazione. I videogiochi non son il male. Sono strumenti interessanti, che hanno aspetti anche molto costruttivi. Però i rischi vanno sottolineati e tenuti sotto controllo. Anche i genitori hanno la loro responsabilità: questa è la prima volta in cui una generazione è molto più competente dei propri genitori in un determinato campo. Gli adulti spesso tendono a dire: “Non ne capisco niente”, e puntano il dito contro i videogiochi come fossero il diavolo. Questo perché madri e padri si sentono spaesati e impauriti da qualcosa che non conoscono e non riescono a controllare». L’esperto conclude: «I genitori vanno supportati, vanno educati rispetto a certi meccanismi. Per noi psicoterapeuti, è necessario lavorare con i ragazzi, ma anche con le loro famiglie».