Storia

Quando il Kaiser volle il processo del poeta del popolo di Lugano

Cent’anni fa moriva Elvezio Crivelli, in arte Petit Bruit: imprenditore fallito, fondatore di giornali satirici e scrittore – Per una sua composizione fu condannato, su spinta anche delle autorità federali, per aver vilipeso il regnante di Germania durante la Prima guerra mondiale - Il parere di uno storico del diritto
Una delle poche tracce rimaste oggi di Petit Bruit: la sua lapide, senza nome, al cimitero di Cadempino. ©CdT/Gabriele Putzu
Federico Storni
23.03.2024 06:00

In questi giorni, cent’anni fa, moriva in miseria Elvezio Crivelli, a soli 48 anni. Imprenditore fallito, ma soprattutto poeta del popolo, di lui ai giorni nostri si sono pressoché perse le tracce, anche perché l’idea di riunire in un volume le sue poesie naufragò ben presto per dissidi fra chi gli era vicino e sopravvissuto. E assieme alla sua memoria svaniscono i giornali satirici che fondò e l’incredibile processo - almeno con gli occhi di oggi - a cui fu sottoposto: lo volle in aula nientemeno che il Consiglio federale per rispondere dell’accusa di vilipendio al Kaiser tedesco Guglielmo II. E se della vita di Petit Bruit - questo il nome d’arte che s’era dato, «Fracassino» - avremo modo di parlare a breve in una puntata speciale del podcast La Cara Vecchia Rassegna Stampa, in queste righe ci concentreremo su quel processo che tanto fece discutere i giornali ticinesi, almeno finché non emerse un altro più grosso scandalo, il cosiddetto affare dei colonnelli, che monopolizzò per mesi l’attenzione della stampa svizzera.

Fu anche sfortuna

Premettiamo che se Petit Bruit si trovò processato fu anche per sfortuna. La poesia incriminata venne pubblicato sul suo settimanale satirico luganese «Il Ragno» nell’agosto 1915 - in piena Prima guerra mondiale - e solo un mese prima il Consiglio federale aveva emanato un’ordinanza che puniva proprio la lesione dell’onore dei capi di Stato e popoli stranieri, al fine di tutelare la neutralità elvetica. A denunciare Crivelli alle autorità politiche federali, come ha scoperto di recente lo storico del diritto Filippo Contarini, fu la Germania stessa (vedi intervista a lato). Come i tedeschi siano venuti a conoscenza di questa poesia che fuori Lugano non era circolata non è chiarissimo: in quei mesi però era presente in città una contestata delegazione di diplomatici austro-tedeschi accreditati presso la Santa Sede.

Quanto alla poesia in sé, intitolata «Un anno dopo», Petit Bruit accusava in sostanza il Kaiser tedesco Guglielmo II di essere direttamente responsabile per le atrocità commesse dai suoi soldati durante l’invasione del Belgio. L’immagine contestata è in particolare quella delle manine mozzate ai bambini belgi (che si scoprirà poi peraltro essere una falsa notizia).

Gotha politico e giuridico in aula

Veniamo al processo, che si tenne a inizio 1916 in un solo giorno, a Lugano di fronte al Tribunale federale, sceso apposta in città (allora funzionava così) e a un pubblico numeroso e ordinato nelle sue reazioni, come riportano le cronache dell’epoca. D’altronde l’occasione aveva un che di eccezionale, anche per le persone coinvolte. A promuovere l’accusa vi era Walther Burckhardt, probabilmente il più importante costituzionalista dell’epoca, nonché il presidente della Società dei giursti svizzeri. A difendere Crivelli fu l’avvocato Angelo Tarchini, consigliere nazionale e presidente del partito conservatore ticinese. A presiedere il Tribunale federale c’era Agostino Soldati, già consigliere di Stato e fondatore di questo giornale. E a fungere da perito fu chiamato fra gli altri Francesco Chiesa, direttore del Liceo di Lugano e figura allora egemone in ambito culturale.

«Fu difetto d’arte»

Sia Chiesa che altri due periti non ritennero vi fossero gli estremi di vilipendio. Il letterato in particolare argomentò come la poesia non fosse che una copia dello stile di Carducci, senza la finezza dell’originale: «Non vi fu eccesso di pensiero, ma difetto d’arte», disse Chiesa. Se, cioè, Carducci sapeva trovare l’equilibrio nel «personificare» in certi personaggi tutto il male o il bene della società, non altrettanto si poteva dire di Petit Bruit: non per cattiveria, ma per imperizia.

Quanto all’avvocato difensore Tarchini, rimarcò che «questa poesia è uno sfogo contro gli errori della guerra. Essa non è che sentimento, ed è sentimento latino. Ma non basta la materialità dell’oltraggio perché esista il delitto. Occorre che questo oltraggio sia sceso nel pubblico ed abbia provocato pubblico disprezzo. Vi è qualcuno nel Ticino che si è turbato della poesia del Ragno? Nessuno! Forse solo il Consolato germanico. Noi ci siamo turbati solo quando sapemmo che veniva fatto questo processo».

Da parte sua, il procuratore Burckhardt argomentò che «l’offesa non scompare perché un giornale è umoristico. E ciò non giustifica in ogni caso una poesia che non è umoristica».

Soldi raccolti in pochi giorni

La spuntò l’accusa - il procuratore Burckhardt argomentò che «l’offesa non scompare perché il giornale è umoristico» - e Crivelli fu condannato a pagare 300 franchi di multa. Vennero raccolti in pochi giorni fra gli amici e mandati a Berna in monete da un centesimo, in un sacco da cemento. Quanto avanzò, oltre mille franchi, fu donato agli orfani di guerra belgi. Petit Bruit vinse poi anche nell’opinione popolare: non un giornale ticinese approvò la decisione del Tribunale federale.

©CdT/Gabriele Putzu
©CdT/Gabriele Putzu

L'intervista: «Quelle ''manine'' potevano spaccare la Svizzera in due»

No, Petit Bruit non aveva alcuna possibilità di vittoria. E forse era giusto così
Filippo Contarini, storico del diritto

Filippo Contarini, lei è storico del diritto e di recente ha dedicato una conferenza alla vicenda. Cosa l’ha appassionato?
«Il caso di Petit Bruit si svolge durante il periodo dei Pieni poteri, negli anni della Prima guerra mondiale. L’Assemblea federale aveva dato carta bianca al Consiglio federale per gestire lo stato di necessità bellico usando ordinanze di emergenza. In modi e tempi nettamente minori, è successo qualcosa di simile durante il Covid. Per questo negli ultimi anni è sorta una certa curiosità sulla giurisprudenza del Tribunale federale (TF) in quel frangente. Gli storici del diritto si chiedono se i giudici a inizio Novecento accettassero tutto quel che proponeva il governo o mettessero dei paletti. Il caso di Petit Bruit ci dice che il TF accettò che il Consiglio federale avesse quelle competenze ampissime, anche in ambito di censura. Il caso è doppiamente interessante proprio perché non è un tipico caso penale. Al centro delle discussioni non c’era un coltello insanguinato, ma una poesia».

Nel ricercare la vicenda ha scoperto negli archivi federali che fu proprio la Germania a chiedere il processo di Petit Bruit.
«In realtà la Germania suggerì il processo, ma senza chiedere ufficialmente alla Confederazione di intervenire. È una via diplomatica che troviamo sovente in Svizzera. Spesso il Consiglio federale dichiarava di muoversi autonomamente, mentre dietro le quinte troviamo ogni tipo di pressione. Non possiamo dire che l’autonomia decisionale sia la caratteristica che identifica la Svizzera nella Storia. Come mai la Germania non si era lamentava ufficialmente? Un reclamo "pubblico" avrebbe messo in moto un’altra procedura, portando Petit Bruit a giudizio di fronte a una giuria popolare composta da giurati romandi e ticinesi. Nei cantoni latini tutti erano convinti che i tedeschi fossero dei criminali di guerra e la giuria avrebbe senza dubbio assolto Petit Bruit, cosa che né la Germania, né la Confederazione volevano. Da cui il riserbo sulla segnalazione e il giudizio davanti a cinque giuristi professionisti».

Crivelli non aveva quindi possibilità di vincere?
«Nel diritto c’è sempre una norma – o un’interpretazione della norma – che permette alle parti di avere una chance di vittoria. Succede però che la Ragion di Stato si sovrapponga sull’ordine del diritto, e i giuristi professionisti devono qui fare gli equilibristi. No, Petit Bruit non aveva alcuna possibilità di vittoria. E forse era giusto così. La sua poesia verteva sulla fake news delle manine mozzate dai soldati tedeschi ai bambini belgi. Era una storia che circolava ampiamente nella società svizzera. In guerra si parla sempre di bambini, ancora oggi, spesso senza distinguere tra realtà e finzione. Quell’immagine poteva spaccare la Svizzera in due e i giuristi intervennero proprio per bloccarla, qui e in una manciata di altri processi simili».

Processi che lei sostiene furono importanti anche riguardo al tema della neutralità svizzera.
«La questione riguarda la neutralità come simbolo di unità. La Prima guerra mondiale fece scoprire agli svizzeri di essere sul serio una Willensnation, ovvero che ci voleva pochissimo a non voler più stare assieme. L’intellettuale Carl Spitteler nel 1914 dovette richiamare la Svizzera tedesca a rispettare la neutralità, perché si era avvicinata troppo alla Germania. Attraverso il caso di Petit Bruit riscopriamo che il Consiglio federale aveva tolto la censura dalle mani del comando dell’esercito nella metà del 1915, per metterla nelle mani dei più autorevoli giuristi. Riscopriamo una volta di più che il vero cemento dell’unità nazionale svizzera nel Novecento era lo Stato di diritto, non l’esercito».

Il giornalista e politico Emilio Bossi dopo la sentenza parlò di dittatura del Consiglio federale.
«E non fu il solo. Lo stesso si faceva nella Svizzera romanda, addirittura attraverso canali ufficiali. I motivi erano due. Da un lato la Svizzera veniva governata dalle ordinanze di emergenza, e il Consiglio federale andava regolarmente oltre i margini indicati dalla Costituzione. Dall’altro il comando dell'esercito era palesemente filo-tedesco e il Governo non voleva criticare gli alti ufficiali. Ieri come oggi, nello stato di necessità si grida alla dittatura, colpevole di deviare dall’ordine costituito. Ma non era veramente una dittatura, in quanto il Consiglio federale dimostrò autonomia politica ridimensionando il ruolo dell’esercito. Le cose cambiarono però presto, quando la politica prese una piega autoritaria contro il movimento operaio, fino ad arrivare alle violenze dello sciopero generale del 1918».