Quando l’Alzheimer si impossessa della mente e ti ruba le parole
È domenica mattina e sul Sottoceneri si è abbattuto un temporale molto forte. Mentre guido, penso a come dovrei comportarmi all’incontro. Arrivo a Vacallo, suono il campanello. Mi apre la porta un omone di 198 centimetri, muscoloso. Ha il sorriso stampato sulle labbra. Ci presentiamo, ed entro in casa. Lui è Alain Vetterli, classe 1962. Di lui so che ha avuto una vita intensa, soprattutto professionale: tredici anni al Servizio consolare del Dipartimento federale degli affari esteri, direttore di una ditta di spedizioni, direttore generale di Prosegur Svizzera, una società di consulenze aziendali a Dubai, direttore amministrativo dell’HCL, direttore generale dell’HCAP e, da settembre 2015 a ottobre 2018, direttore del Centro sanitario Bregaglia. Poi nulla. A soli 56 anni si è conclusa la sua vita lavorativa. Perché è arrivato lui: l’Alzheimer. È questo il dettaglio che mi spaventa di più, non mi sono mai confrontata con una persona affetta da questo morbo, oltretutto in età così giovane. Ha solo due anni in più di mia mamma. Ma oggi è la Giornata mondiale dell’Alzheimer, istituita ventisette anni fa per creare una coscienza pubblica sulla malattia, e io sono qui per alimentare la mia conoscenza. Il suo, infatti, è un caso di Alzheimer precoce, uno di quelli rari in cui la malattia colpisce prima dell’età pensionabile. C’è un film del 2014 sull’argomento, «Still Alice», in cui la protagonista (Julianne Moore) è un’affermata linguista a cui viene diagnosticata una forma presenile del morbo. Di Alain Vetterli so anche che è sempre stato un uomo «tutto d’un pezzo», molto serio, severo, attento alle apparenze. Nella sua vita, pure nel rapporto con i tre figli, sono mancate le smancerie, così come dimostrazioni di affetto. Me l’ha raccontato sua moglie, Lorena, da cui è separato. È lei a conoscerlo meglio di tutti ed è lei, ancora oggi, a prendersi cura di lui. Non vivono insieme, ma si vedono e si sentono tutti i giorni. Siamo a casa di Lorena per colazione, con noi c’è anche Katia. Lei è entrata nella vita di Alain cinque mesi fa. Non è una «badante», perché non ne ha bisogno. In sua compagnia svolge molte attività - cucina, sport, chiacchierate, passeggiate in montagna -; con lei si apre durante gli incontri settimanali, parla anche della malattia, e il rapporto che hanno costruito in relativamente poco tempo è davvero speciale e palpabile.
Non tanto la memoria, quanto il linguaggio
Dal momento in cui ci sediamo a tavola a quando me ne andrò, il tempo passa velocemente. Il clima è conviviale, quasi familiare. Prima di conoscerlo mi sono chiesta cosa avrei dovuto dire, non voglio inondare Alain di domande, nonostante io abbia mille curiosità. Anche perché non è mia intenzione metterlo in difficoltà. Il fardello principale che la malattia di Alzheimer gli ha portato è proprio privarlo della confidenza nel linguaggio, nell’esprimersi. Lui che oltre all’italiano parla perfettamente francese, tedesco, svizzero-tedesco, inglese e spagnolo. È stato proprio questo, mi spiega Lorena, uno dei primi campanelli d’allarme. «Era direttore in Bregaglia e capitava, quando lo sentivo al telefono, che gli mancassero le parole – mi dice -. C’erano troppi silenzi». Ma sono cose che quando hai poco più di cinquant’anni e una salute di ferro attribuisci allo stress, ai mille impegni, alla vita professionale che cambia in fretta e richiede molto sforzo. Di certo non a un inizio di demenza. Solo con «il senno di poi» diventano segnali. «Mio figlio mi raccontò che in una chiamata lui si esprimeva in italiano e il papà, Alain, interagiva invece in svizzero-tedesco, non riusciva a cambiare lingua». La stessa cosa avvenne a un colloquio di lavoro, in cui Alain rispondeva in inglese alle domande poste in schweizerdeutsch dal datore di lavoro.
La mente che si annebbia
Durante la nostra colazione, Alain sembra a suo agio. Mangia la brioche comprata da Katia, chiede un caffè nero lungo come me, assaggia la centrifuga «troppo forte di zenzero» di Lorena. Mentre lei narra racconti di vita passata, lui entra spesso nel discorso. Lorena menziona un corso di sub e Alain ricorda un viaggio alle Maldive in cui lei, nel corso di un’immersione, si è nascosta dietro di lui per paura. «Si è rannicchiata dietro alla mia schiena» dice. Ma quando i miei occhi incrociano i suoi, si blocca. Non si ricorda la parola «squalo», proprio non gli viene. Lo aiuto io e lui prosegue dicendomi che «non era uno squalo bianco, ma uno di quelli piccoli che arrivavano quando buttavano i resti del pesce in mare». Lei si era spaventata perché pensava la puntasse. Quando passiamo all’esperienza in Israele, dove è nata la loro figlia, lui mi parla del pediatra, poi diventato loro amico. Un signore italiano di cui ricorda il nome. Accenna al comportamento degli israeliani, alla differenza di atteggiamento rispetto ai palestinesi. Si ricorda anche del parto. «Non ha perso la memoria a lungo termine», penso io. Quando, però, le parole si perdono nella sua mente, Lorena lo aiuta e lui prosegue nel discorso. Dimentica quello che stava dicendo un attimo prima, ma i ricordi del passato sono lucidi, nonostante faccia fatica a tradurli in parole. Una cosa che lo disturba. Quando «si perde» - è questo l’unico modo in cui riesco a descrivere quello che vedo – rimane quasi paralizzato. Resta immobile, lo sguardo nel vuoto, gli trema il labbro. Porta una mano alla fronte, oppure abbassa la testa e la sostiene con entrambi i palmi, quasi vi cercasse dentro quelle parole che non gli escono dalla bocca, nonostante non desideri altro.
Un’amicizia che cambia le cose
Per tutto il tempo scherza con Katia. Sono molto in confidenza. Lei è andata a prenderlo in auto, visto il diluvio. Ma, entrando in macchina, lui che è alto quasi due metri ha picchiato la testa. Ha un piccolo bernoccolo per il quale lo prendiamo in giro. Anche lui ci scherza e in un’occasione in cui dimentica cosa vuole dirmi ironizza, «sarà colpa della botta». Con lei non serve un rapporto «professionale», perché la memoria la allena con gli esercizi al centro diurno e il corpo nelle sedute di ergoterapia. Lei è lì per farlo sentire bene. E, stando a Lorena, da quando è entrata nella sua vita c’è stato un miglioramento davvero notevole. «È allegro, non è più arrabbiato e nervoso. Ride, scherza, ha tirato fuori un lato ‘‘tenero’’. È pure più affettuoso. Anche i suoi figli sono stupiti, stanno conoscendo ‘‘un nuovo papà’’». Con lei Alain parla anche della malattia. Insieme, lì a tavola, gli chiediamo cosa prova nei confronti dell’Alzheimer e cosa è cambiato da quando gli è stato diagnosticato, circa quattro anni fa, rispetto a oggi. A quel punto un po’ si agita. Mi risponde «no, non mi sono arrabbiato quando l’ho saputo». E ribadisce il concetto che lui ha lavorato in casa anziani, in Bregaglia, e quindi sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Io, però, so che invece qualcosa nel tempo è successo. So, perché me l’ha detto Lorena, che inizialmente è diventato aggressivo, mai con le persone ma con gli oggetti. Era ancora più severo, chiuso. Comprensibilmente, mi arrabbierei anche io al suo posto. «Lui ha sempre parlato di quello che avrebbe fatto un giorno, raggiunta la pensione. Aveva mille progetti, tanti desideri. Invece ha dovuto fare i conti con la realtà e deve farli tuttora».
«Io, come diventerò?»
Da quando Katia è entrata nella sua quotidianità, però, quella parte è scomparsa. Ora Alain si apre, è positivo, amichevole. Con lei ride, si prendono in giro. È rimasto il «precisino e perfettino» di sempre, ma si gode le attività che svolge e i momenti in maniera diversa. Vederli insieme è strano per i suoi familiari, lei è tatuata e piena di piercing, cose che lui non ha mai approvato. Ma sembra sereno. Ed è pienamente consapevole. «Un giorno, nella sala d’aspetto dell’ufficio medico, mi ha chiesto ‘‘ma io, come diventerò?’’ – mi confessa Katia, che lavora da anni con persone malate -. Sono stata onesta, gli ho detto che non lo so. Ma che dipende anche da lui, dalla sua attitudine, da come affronta la vita. Non per forza andrà incontro a un decadimento veloce». Alain sa benissimo come finirà la sua vita. Ma per ora sta imparando a godersi quello che ha, forse come mai aveva fatto prima. Ha accanto Lorena, pranza con i suoceri - «i nonni» - due volte alla settimana, porta Katia in montagna dove lei deve fare due passi per completarne uno solo dei suoi. Io lo saluto, consapevole che ora, a modo suo, ha arricchito anche me.
Ruba i ricordi e ti sottrae agli affetti
Secondo i dati 2021 forniti da Alzheimer Svizzera, si stima che nel nostro Paese vivano 146.500 persone affette da demenza, 7.705 in Ticino. Per ogni persona malata sono coinvolti da uno a tre famigliari. Considerando che l’età è il maggiore fattore di rischio, si presume che entro il 2050 saranno 315.400 le persone affette da demenza. Fondamentale è la diagnosi, come spiega Ombretta Moccetti, infermiera psichiatrica responsabile dell’Antenna e del Centro competente Alzheimer Ticino. «Si raccomanda sempre una visita al più presto possibile, quando compaiono i sintomi. È fondamentale per rallentarne il decorso. Ma anche per la programmazione del suo futuro». L’Alzheimer, infatti, non è solo della persona affetta, coinvolge anche la cerchia di persone che le stanno accanto. «Il paziente può fornire direttive sul suo futuro, sull’organizzazione della sua vita. Inoltre può iscriversi a gruppi di memoria, pianificare delle attività che gli consentano di allenare la mente, mantenersi attivo anche fisicamente in cose che gli piacciono». I casi di demenza a esordio precoce, fortunatamente, sono rari. Ma ci sono.
Nei casi di Alzheimer, si parla di «lutto bianco» per i familiari. «È comunque una perdita, anche se è una malattia che può durare diversi anni - aggiunge Moccetti -. Si assiste a delle perdite della persona. Che c’è, non è deceduta, ma sta cambiando e costringe gli altri a confrontarsi continuamente con degli stravolgimenti della situazione. Non è per niente facile».
La speranza dagli USA?
Attualmente non esiste una cura per la demenza. Tuttavia, i medicamenti possono ritardarne lo sviluppo e migliorare la qualità della vita delle persone malate e dei loro famigliari. Negli Stati Uniti è stato immesso sul mercato, con il marchio Aduhelm, il primo farmaco contro l’Alzheimer che dovrebbe non solo attenuare i sintomi della malattia, ma addirittura migliorare le funzioni cerebrali. «La notizia è stata accolta con positività dalla comunità scientifica e dai geriatri. Ma siamo prudenti, non vogliamo dare false speranze. Anche perché rimane un medicamento che dev’essere somministrato all’inizio della malattia e molte persone non accedono a una diagnosi precoce. È una buona cosa e attendiamo gli sviluppi, nel frattempo continuiamo a lavorare con quello che sappiamo».
Gli appuntamenti
In occasione della Giornata mondiale, Alzheimer Ticino propone i suoi ormai conosciuti «Café Alzheimer» sul territorio. Gli appuntamenti sono:
21 settembre, Tertianum Cornaredo (zona Resega), Porza, dalle 15 alle 17: presentazione del libro per bambini «Ladro di ricordi» di Moira Frapolli
22 settembre, Museo Vincenzo Vela, Ligornetto, dalle 15 alle 17: «La persona con deterioramento cognitivo al museo», con Paola Colotti, mediatrice culturale
22 settembre, Hotel Unione, Bellinzona, dalle 15 alle 17: Fra Michele Ravetta in un viaggio di «Riconciliazione tra la vita e la morte»
22 settembre, sala Municipio di Airolo, dalle 14 alle 15.30: Dr. F. Kola «Vuoti di memoria, quando preoccuparsi»
23 settembre, Sala Multiuso Comunale a Ponte Tresa, dalle 15.30 alle 17: Dr.ssa D. Levante «Vuoti di memoria, quando preoccuparsi»
24 settembre, ristorante Vallemaggia a Locarno, dalle 15 alle 17: presentazione del libro per bambini «Ladro di ricordi» di Moira Frapolli