L'intervista

«Rischi inevitabili in montagna, da secoli in lotta contro la natura»

Luigi Lorenzetti, coordinatore del Laboratorio di Storia delle Alpi, spiega in che modo le popolazioni montane, nei secoli scorsi, hanno affrontato e superato le avverse condizioni di vita – Le scelte adottate negli ’60 e ’70 del Novecento figlie di un contesto climatico differente
©Gabriele Putzu
Dario Campione
02.07.2024 22:30

Luigi Lorenzetti insegna nell’area Cultura del territorio all’Accademia di architettura dell'USI, dove coordina anche il Laboratorio di Storia delle Alpi, un centro di ricerca sullo spazio alpino osservato attraverso i molti aspetti di natura economica, sociale, culturale, demografica o politica. E proprio a partire dalla storia delle montagne ticinesi, il professor Lorenzetti inizia la sua riflessione con il Corriere del Ticino su quanto accaduto pochi giorni fa, prima nel Moesano e poi in Vallemaggia.

«Il problema dei rischi naturali nelle zone di montagna ticinesi e svizzere ha una lunga storia, addirittura plurisecolare, costellata da numerosi eventi catastrofici. Basti pensare, ad esempio, alla frana di Piuro - in Valchiavenna - del 1618, che seppellì un villaggio intero provocando un migliaio di vittime. In epoche più recenti, diciamo negli ultimi due secoli, si ricorda l’alluvione del 1868 che devastò tutte le valli superiori del Ticino e che provocò una vera e propria ondata di espatri: molte comunità, infatti, si ritrovarono senza più mezzi di sussistenza, con i prati e i pascoli devastati e le case distrutte. E poi, nel 1901, l’alluvione proprio in Val Bavona e in Val di Peccia, che diede vita a un’importante raccolta di fondi a favore della Lavizzara da parte di emigranti valmaggesi in Olanda ».

In tempi più prossimi, dice ancora Lorenzetti, «va ricordata l’alluvione del 1978, che causò in Ticino 7 morti; e poi ancora le alluvioni del 1993 e del 2003. In effetti, a scadenze più o meno ravvicinate e con una certa ciclicità, eventi del genere si sono ripetuti e hanno caratterizzato in qualche modo l’area alpina e il territorio ticinese. Di fronte a questi eventi, nel corso del tempo le popolazioni di montagna, hanno saputo elaborare una vera e propria “cultura del rischio”, in buona parte basata sulla memoria di queste catastrofi. La gente sapeva esattamente quali fossero i luoghi pericolosi, i canaloni esposti alle valanghe e i terreni soggetti alle frane. E sapeva elaborare precise strategie costruttive per farvi fronte. Questa cultura del rischio - dice Lorenzetti - è rimasta viva e ha funzionato per secoli, senza naturalmente eliminare del tutto il pericolo, ma mitigandolo sensibilmente perché il rischio zero, si sa, in montagna è impossibile».

In sostanza, non si costruiva dove in precedenza si erano verificati eventi franosi o straripamenti, e si tramandavano semplici, efficaci tecniche costruttive. «Se ancora oggi troviamo in piedi cascinali o stalle risalenti al XVII o XVIII secolo - dice lo storico ticinese - non è un caso. Succede non solo perché le tecniche costruttive erano efficaci e resistenti, ma anche perché si edificava in luoghi non esposti».

Nel corso del tempo le popolazioni di montagna hanno elaborato una vera e propria cultura del rischio

Frenare lo spopolamento

Sul piano sociale, dice ancora Lorenzetti, bisogna sottolineare una doppia valenza della montagna. Luogo da cui si partiva per la povertà o le difficoltà di collegamento, ma anche luogo di rifugio, luogo salvifico, di protezione. «Negli anni del Covid, molte persone si sono stabilite nelle residenze secondarie, lontano dai centri urbani più direttamente toccati dalla pandemia. Inoltre, in questi ultimi anni, molte persone hanno scelto di abbandonare le zone di pianura a causa delle temperature estive vieppiù elevate e cercato in montagna condizioni climatiche più favorevoli e meno pericolose per la salute. Oggi, invece, siamo di fronte a un fenomeno opposto: la montagna è percepita nuovamente come il luogo del rischio, accentuato da fenomeni meteo sempre più estremi e violenti. Il pericolo è veder innescarsi una sorta di migrazione climatica, ovvero l’abbandono delle aree reputate troppo pericolose. Ecco, non vorrei che le Alpi si trasformassero in spazi destinati a veder sparire gli insediamenti umani, un po’ come accadrà con diverse isole del Pacifico condannate a essere sommerse dalle acque per l’innalzamento delle temperature e del livello degli oceani».

Come affrontare, allora, il problema? Che cosa chiedere a chi ha il potere di decidere o di destinare risorse mirate a evitare questa eventualità? «Al di là delle politiche di mitigazione e di riduzione delle emissioni di CO₂, i cui effetti comunque non possono essere dispiegati da un giorno all’altro, nel breve termine bisogna intervenire con altri mezzi - dice Lorenzetti - dal potenziamento dei sistemi di prevenzione alla migliore gestione del rischio attraverso la conoscenza precisa delle zone critiche, come peraltro si sta già facendo da decenni».

Sicuramente, occorre mettere un freno allo spopolamento della montagna. «La grossa minaccia, oggi, è proprio la rinuncia a mettere in atto quelle misure che consentono alla gente di continuare a vivere nelle valli alpine. Ammettere che si possa prendere in considerazione l’abbandono dei territori eccessivamente esposti ai rischi naturali mi sembra una posizione pericolosa, e non solo per i territori montani stessi, ma anche per quelli di pianura, in quanto le ripercussioni sul piano idrogeologico si estenderebbero anche ai fondovalle, così come mostrano numerosi fenomeni alluvionali degli ultimi anni, connessi all’incuria dei territori alpini.

Soluzioni insufficienti

Scongiurare lo spopolamento, quindi. Ma anche una edificazione errata, non regimentare più i torrenti, adottare tecniche di costruzione che poi, nel tempo, la montagna sia in grado di reggere. «Una cosa va detta - sottolinea Lorenzetti - noi oggi facilmente giudichiamo e critichiamo quanto è stato fatto negli anni ’50 e ’60 del Novecento per la correzione degli alvei o la regimentazione dei fiumi. Dimentichiamo, tuttavia, quanto fosse differente il contesto climatico. Fenomeni meteorologici estremi accadevano, ma con meno frequenza e con minore violenza. Molte di quelle soluzioni, di quei sistemi erano corretti perché, bene o male, riuscivano a gestire buona parte dei problemi idrologici. Certo, adesso si rivelano insufficienti. Lo vediamo, per esempio, in Vallese, dove sono in programma grandi progetti di rinaturalizzazione del corso del Rodano».

Il cambiamento climatico è quindi un fattore di novità che ha trasformato alla radice buona parte delle questioni. «Sessanta o settanta anni fa - conclude lo storico dell’Accademia di architettura dell'USI - non si è agito in modo sconsiderato ma sulla base delle conoscenze, delle tecniche e di quello che era il contesto ambientale dell’epoca. Oggi le valutazioni sono differenti, così come le soluzioni a breve e medio termine».