Salute mentale

Rompere il muro del silenzio di fronte al dolore dell’anima

In Svizzera negli ultimi anni il tasso di suicidi si è ridotto e il Ticino è il cantone con i numeri più bassi – Tuttavia, l’8% della popolazione ha pensato almeno una volta di togliersi la vita
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Martina Salvini
02.11.2024 06:00

Perché lo ha fatto? Com’è stato possibile arrivare a tanto? Di fronte alla notizia di un suicidio, come individui - e come collettività - ci interroghiamo su quali segnali si sarebbero dovuti cogliere. Su quale aiuto è mancato. Ancora più spesso, semplicemente, del suicidio non si parla. Resta un tabù. «La nostra reticenza a discuterne dimostra la necessità di fuggire da un tema scomodo, per certi versi incomprensibile», sostiene non a caso Daniele Intraina, direttore dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale. Proprio l’OSC qualche giorno fa ha organizzato una mattinata di studio sul tema. «Ogni suicidio - ha spiegato Intraina - è la conseguenza di una grande sofferenza personale, nonché un evento tragico che colpisce le famiglie, la comunità e non da ultimo gli operatori». Ha, insomma, «un impatto importante e prolungato anche nelle persone che restano». Citando il professor Maurizio Pompili, uno dei massimi esperti in ambito di suicidio, Intraina ha ricordato: «Il suicidio non dovrebbe essere considerato un movimento di avvicinamento alla morte, bensì il tentativo estremo di allontanarsi da un dolore psicologico divenuto insopportabile. Se tale dolore potesse essere per tempo alleviato, questi soggetti probabilmente testimonierebbero la loro voglia di vivere». Troppo spesso, infatti, «il suicidio è inatteso solo perché si sono negati i segnali d’allarme della vittima». Di conseguenza, il passaggio all’atto, per chi è stato vicino alla persona, è vissuto con grandi sensi di colpa. In questo contesto, «lo sforzo da compiere è esserci. Essere presenti qui e ora per l’altro».

Il quadro in Svizzera

A dare qualche numero per inquadrare il fenomeno in Svizzera è stato Matteo Preve, a capo dei Servizi psico-sociali dell’OSC del Sottoceneri. «Il tasso di suicidi, negli ultimi 25 anni, si è ridotto». Tuttavia, circa l’8% della popolazione dichiara di avere pensieri suicidari e lo 0,3% ha ammesso di aver tentato di togliersi la vita negli ultimi 12 mesi. Negli uomini over 80, poi, il tasso suicidale è «di gran lunga superiore» al resto della popolazione. Mentre tra i giovani tra i 15 e i 19 anni, il 7,2% delle ragazze e il 2,7% dei ragazzi ha tentato il suicidio negli ultimi cinque anni. Numeri preoccupanti, dunque. Senza dimenticare un altro dato allarmante, quello legato al silenzio. Sì, perché nella maggioranza dei casi i pensieri (o i tentativi) di suicidio non vengono condivisi con nessuno. Non a caso, ha spiegato Preve, una persona su cinque non parla del suicidio o del tentativo di suicidio messo in atto, e il 50% non ne parla a chi gli sta vicino. «Da questi dati si capisce bene come il tema sfiori quasi tutti almeno una volta nella vita. Di qui l’importanza di monitorare il fenomeno, in modo da individuare metodi preventivi più efficaci». In quest’ottica si inserisce la decisione del Consiglio di Stato di istituire il «Gruppo monitoraggio suicidio», composto da rappresentanti attivi sul territorio. A loro spetterà il compito di creare e mantenere un quadro aggiornato della situazione, in modo da avviare anche una serie di riflessioni nell’ottica preventiva.

E in Ticino

Anche quando si parla di suicidio, ha ricordato Preve, non mancano le categorie più fragili. «Le comunità LGBTQ+ e le fasce con scarso reddito economico, ad esempio, sono quelle più a rischio». E ancora: «Gli uomini si tolgono la vita tre volte in più delle donne, ma per queste ultime i tentativi di suicidio sono tre volte in più degli uomini. Infine, chi è in cura commette suicidio attorno ai 52 anni, mentre per chi non lo è l’età si abbassa a 46 anni». Per quanto riguarda il nostro Cantone, nonostante il Ticino presenti un tasso di suicidio significativamente inferiore rispetto alla media nazionale (7,2%) e attualmente sia il cantone con i numeri più bassi, ogni anno quasi 40 persone muoiono per propria volontà. Soprattutto, ha fatto notare Maria Chiara Ferrazzo Arcidiacono, responsabile del servizio di psicologia clinica e psicoterapia dell’OSC, «se è vero che negli ultimi venti anni il tasso di suicidi in Ticino è nettamente diminuito, dal 2010 abbiamo osservato una sostanziale stabilità». Le cifre, insomma, faticano a calare ulteriormente. «Senza dimenticare che per ogni suicidio, ce ne sono almeno 20 tentati. Parliamo quindi di numeri considerevoli».

Promuovere il dialogo

Malgrado gli sforzi di prevenzione, il suicidio rimane ancora un argomento difficile da affrontare. «Per questo - dice Ferrazzo - è così importante sensibilizzare l’opinione pubblica, in modo da ridurre lo stigma legato al suicidio». È, insomma, fondamentale promuovere un dialogo che sia il più possibile aperto per incoraggiare le persone a cercare aiuto in modo tempestivo. Tra le iniziative specifiche messe in atto figura anche il progetto ASSIP (Attempted Suicide Short Intervention Program). «Il metodo - ha spiegato la psicologa Alice De Marco - ha dimostrato di ridurre le recidive dell’80%, migliorando la qualità di vita e la salute mentale dei pazienti». Ma come funziona concretamente? «Il progetto prevede tre sedute con un intervento di matrice cognitivo-comportamentale. L’obiettivo è di cercare di inquadrare le crisi suicidarie, tentando di comprendere i segnali d’allarme e definendo strategie funzionali. Con questo metodo ci si assicura che il tentativo di suicidio non venga trascurato e che la persona ne possa parlare in un contesto terapeutico sicuro». Il programma, ha sottolineato De Marco, non necessita di una prescrizione medica, né si sostituisce alla psicoterapia. «È un intervento breve con il paziente nell’ottica di una prevenzione al suicidio». In Ticino le tre sedi preposte sono presso i Servizi psico-sociali di Viganello, Bellinzona e Locarno, con la possibilità di effettuare le sedute anche alla Clinica psichiatrica cantonale di Mendrisio.

Le difficoltà dei curanti

Un ruolo fondamentale, benché spesso sottovalutato, è però svolto anche dai medici di famiglia. «Hanno l’enorme vantaggio di costruire una relazione, che talvolta dura per decenni, con il paziente e i suoi familiari», ha ricordato Martine Bouvier Gallacchi, a capo del Servizio di promozione e di valutazione sanitaria dell’Ufficio del medico cantonale. Per il medico di famiglia «non è affatto semplice: ci sono il peso e il potere delle parole. Di quelle dette e di quelle taciute». E poi ci sono le emozioni. «Di fronte a un suicidio, spesso si attiva il senso di colpa. Si pensa di aver sbagliato qualcosa». A supporto dei professionisti, ha ricordato, nel 2019 è stata svolta una formazione specifica ed è stata confezionata una guida pratica, proprio per aiutare il personale sul territorio. Della difficoltà per chi si trova a intervenire in casi simili ha parlato anche Roberta Petrino, primaria del Pronto soccorso del Civico di Lugano. Tra 2023 e 2024, nei PS dell’EOC i ricoveri riconducibili a un tentativo di suicidio sono stati 912. «In PS noi cerchiamo di curare. Ma di fronte a un paziente che ha male all’anima, un tipo di dolore che noi medici d’urgenza non possiamo alleviare, ci sentiamo sconfitti».

Se i suicidi appaiono in diminuzione, i tentativi di togliersi la vita, così come i comportamenti autolesionistici, appaiono invece in aumento. «La progressione è stata notevole, specialmente nei giovani», dice il professore Maurizio Pompili, tra i massimi esperti del tema. «Stiamo vivendo senza dubbio una fase di grande disconnessione a livello globale. In questo contesto, la pandemia non è stata responsabile della devastazione principale. I dati, infatti, indicano che l’aumento del disagio giovanile ha iniziato a intensificarsi ben prima del COVID, dal 2010». Il problema, sostiene Pompili, è collegato infatti a un utilizzo massiccio dei social media. «L’isolamento e la disconnessione sono facilitate dalla creazione di una rete di amicizie e di rapporti virtuali, non genuini. Questo si evidenzia in tutte le età, anche se nei giovani è più evidente. La conseguenza è una vita sempre più appartata, che comporta una maggiore vulnerabilità al dolore mentale, che è poi l’ingrediente di base del suicidio». La realtà virtuale, evidenzia l’esperto, «agevola fenomeni di dipendenza, di perdita di sonno, e sottopone a stimoli denigratori, come il ciberbullismo, che possono scalfire la sicurezza delle persone e creare via via maggiore vulnerabilità». Anche la difficoltà ad adeguarsi ai modelli perfetti veicolati dai social «spesso finisce per generare sofferenza e una maggiore tendenza a sviluppare la disperazione, la mancanza di aspettative nel futuro». In questo contesto, sempre più Paesi stanno valutando l’introduzione di limiti di età per l’utilizzo dei social. «Ma ora che il fenomeno ha preso piede, è anche molto difficile riuscire ad arginarlo. Le scuole possono agire in maniera determinante, perché le famiglie da sole tendono a non farcela». Piuttosto che imporre limiti e paletti, però, secondo il professore è importante puntare su formazione e informazione. «I divieti tendono a essere aggirati o scavalcati, invece, spiegando ai giovani quali sono i veri rischi e rendendoli quindi più consapevoli, i social possono diventare opportunità, diventando non qualcosa di lesivo ma di creativo».
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