Se al semaforo mettiamo in moto lo smartphone

Chiariamo subito una cosa: è illegale e pericoloso. Alcuni però lo fanno e vogliamo capire perché. Parliamo degli automobilisti che usano il cellulare mentre sono fermi al semaforo. Un semplice passatempo o qualcosa di più? Ne parliamo con due professori dell’USI: l’esperto di media Gabriele Balbi e la specialista in marketing Léna Pellandini-Simányi.
Verde, giallo, rosso. Seconda, prima, fermi. È un semaforo ostico, di quelli che fanno passare tre o quattro auto e poi stop, mentre chi è incolonnato prova a calcolare quanti altri cambi di colore serviranno per oltrepassare l’incrocio. L’attesa è noiosa, il panorama non offre un granché e lo sguardo cade sul telefonino appoggiato in malo modo fra il cambio e la presa USB. È un attimo e i pollici cominciano a ballare sullo schermo illuminato. Facebook, Instagram, Whatsapp, le foto della cena di ieri e... beeeeeeep: il clacson della macchina dietro di noi. È tornato il verde, ma non ce ne siamo accorti e abbiamo bloccato il traffico, oltre ad aver infranto la legge. Riponiamo bruscamente il cellulare. Prima, seconda, giallo... rosso. Troppo tardi, dovremo aspettare. Intanto lo specchietto retrovisore riflette gestacci e labiali che non hanno bisogno di spiegazioni. Ci lasciamo alle spalle l’incrocio e le ingiurie, ma alcune domande ci accompagnano: era necessario prendere lo smartphone proprio in quel momento? Era così difficile aspettare qualche istante e concentrarsi sul mondo reale? Perdendo il verde, fra l’altro, abbiamo sprecato dei minuti per i quali in altre occasioni ci battiamo come leoni. Per esempio quando sorpassiamo un’auto che secondo noi va troppo piano, magari rischiando di prendere una multa o di fare un incidente. Non è paradossale?
La stufa e la bella ragazza
Partiamo da quel tempo che non abbiamo voluto trascorrere senza controllare il cellulare. Sull’orologio erano uno, massimo due minuti, ma quanto duravano realmente? Per capire, il professor Balbi c’invita a considerare altri orologi, i famosi orologi molli dipinti nel 1931 da Salvador Dalì. Nel suo quadro La persistenza della memoria il pittore spagnolo ci fa riflettere sulla relatività del tempo deformando lo strumento che dovrebbe misurarlo in modo oggettivo e incontestabile. Lo stesso principio l’aveva evidenziato un paio d’anni prima anche Albert Einstein. «Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza – spiegava il fisico tedesco – sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora». Ci sono vari fattori che possono influenzare la durata dei nostri due minuti davanti al semaforo. In una società come quella odierna, che ci spinge ad essere costantemente connessi e che ci dà molteplici occasioni di comunicare anche quando siamo soli, tendiamo più verso la stufa.
Non chiamateli tempi morti
C’è un’espressione che fa al caso nostro: tempi morti. «Sono momenti che abbassano un po’ il ritmo frenetico della vita quotidiana – osserva il professor Balbi – e questa è una cosa positiva. Tuttavia può trasformarsi in una sensazione diversa: una sorta di horror vacui, di terrore del vuoto. In passato questa paura era legata soprattutto allo spazio, ad un bianco che doveva essere in qualche modo colmato, mentre oggi è temporale: dobbiamo sempre essere impegnati a fare qualcosa». Controllare il telefonino mentre siamo in colonna, tuttavia, è un’attività legata anche ad altre sensazioni. «Un fattore fondamentale è la gratificazione continua che ci danno queste interazioni virtuali e lo fanno perché rispondono a un nostro bisogno di socialità. Non dobbiamo per forza comunicare con qualcuno: siamo gratificati anche dal semplice leggere un messaggio o guardare una foto di amici, in incognito e senza commentare». E qui entra in gioco un altro aspetto cruciale, quello della dipendenza: una spinta ulteriore a sfruttare tutti i tempi morti della giornata per collegarci con il mondo. «C’è chi sta studiando il fenomeno in termini di dipendenze, ma io metterei l’accento su un altro tema. Ciò che facciamo in quei momenti – prosegue Balbi – è per noi un investimento emotivo e sociale: ci mettiamo in gioco, creiamo o estendiamo le nostre reti, cerchiamo di sentirci meno soli. Non ridurrei, insomma, questo trastullarsi con lo smartphone ad un semplice riempitivo dei tempi morti. Socialmente è qualcosa di molto più significativo».
Un calcolo inconscio
La parola «investimento» ci proietta verso un altro punto di vista sulla questione: quello economico. O meglio socioeconomico, perché le relazioni continuano a giocare un ruolo importante. La domanda è se il tempo trascorso online mentre siamo fermi al semaforo è un buon investimento oppure no. Una possibile risposta è legata al risultato del nostro agire. Se quando scatta il verde ce ne accorgiamo, posiamo il telefono e ripartiamo subito, bene, abbiamo sfruttato quella manciata di secondi per una sbirciata al mondo virtuale e siamo tornati in quello reale senza far perdere tempo agli altri e a noi stessi: zero costi e un piccolo beneficio. Se invece finiamo per intralciare la circolazione, qualche costo lo abbiamo: perdiamo tempo e veniamo presi a male parole. Secondo la professoressa Pellandini-Simányi «si può parlare di cattivo investimento solo se con l’auto dobbiamo raggiungere una destinazione entro un determinato orario e rischiamo di arrivare in ritardo». Distraendoci con il cellulare mettiamo in pericolo la nostra risorsa più scarsa e preziosa: il tempo, appunto. Se invece non dobbiamo tener d’occhio l’orologio, la situazione cambia. Diventa più sfumata. «In quel caso, molto dipende dal valore che diamo al tempo trascorso sulle reti sociali o con altre applicazioni». Può essere una tediosa rassegna di quello che succede attorno a noi, oppure la svolta della nostra giornata. Il fatto è che spesso non lo sappiamo prima: incerto come un vero mercato.
L’eterno presente
Obiezione: non sarebbe tutto più facile se pensassimo prima a guidare e poi, una volta parcheggiata l’auto, a navigare? «Non è così semplice – replica la nostra esperta – su Internet cerchiamo e troviamo spesso le cosiddette informazioni time sensitive, cioè legate al momento. Viviamo in un eterno presente e certi contenuti devono, fra virgolette, esser consumati subito. Ci piace essere i primi a condividere o a commentare una notizia, mentre se arriviamo dopo abbiamo l’impressione di aver perso qualcosa, ci sentiamo esclusi». Niente di drammatico, parliamo di finezze, ma nelle piccole scelte quotidiane contano, soprattutto se una persona è dipendente dai contenuti digitali. «Questo tipo di utente, di fronte alla possibilità di connettersi davanti al nostro semaforo rosso, darà ancora più valore ai benefici dell’operazione. E poi avrà una bassa percezione dei rischi, come quello di prendere una multa o di causare un incidente con una ripartenza frettolosa». Se dovesse succedere, avere investito tempo e attenzione nello smartphone si rivelerebbe una scelta disastrosa.
Noi stessi come azienda
Vien da dire che l’azienda-individuo dovrebbe guardare ai suoi interessi e non farsi influenzare troppo dalle strategie di marketing delle aziende (le vere aziende) che gestiscono le piattaforme e i contenuti digitali. Pellandini-Simányi la vede diversamente: «Molti considerano il marketing solo come pubblicità, ma un buon marketing consiste nel capire cosa vuole una persona e darglielo. E i social network rispondono alla reale necessità di essere connessi con gli altri». L’automobilista furioso che si trovava dietro di noi risponderebbe che anche superare l’incrocio in tempi ragionevoli era un’esigenza reale. Eccoci a un altro semaforo. Rosso, rosso-giallo, verde. Prima, seconda e andiamo.